Negli anni Settanta al Cognitive Science Department della Stanford University si cercava di comprendere il meccanismo attraverso cui la nostra mente elabora le proprie opinioni e il motivo per cui spesso, anche di fronte all’evidenza logica che si tratta di convinzioni errate, una volta formulata un’opinione fatichiamo a cambiarla.
Vennero svolte molte ricerche e diversi esperimenti condotti su panel di soggetti molto diversi sotto il profilo demografico e socio-economici. In questo campo le analisi sono complesse, per le caratteristiche intrinseche della materia di indagine si ottengono risultati indicativi, senza dubbio molto importanti ma non univoci e sperimentalmente ripetibili come richiederebbe l’approccio scientifico tradizionale.
Quello che emerge da queste analisi è comunque molto interessante: tutti noi formuliamo opinioni convinti di essere competenti anche rispetto a materie delle quali non abbiamo una reale conoscenza. Inoltre tendiamo istintivamente a prestare fiducia anche ad altri soggetti se li riteniamo competenti in quel settore (anche se il nostro giudizio si basa su elementi soggettivi, dato che non possiamo valutare la preparazione di un soggetto in relazione a qualcosa che a nostra volta non conosciamo).
Queste convinzioni sono radicate: ci rifiutiamo di cambiare opinione in relazione alla nostra e all’altrui competenza anche di fronte all’evidenza che ci smentisce e continuiamo a gestire analogamente anche la fiducia che ne deriva.
Tra le persone “competenti” tendiamo a identificare soggetti leader che prendano decisioni per noi e per il nostro gruppo di appartenenza.
Si tratta di modalità di funzionamento del nostro cervello che sperimentiamo quotidianamente: ci affezioniamo a una marca di automobili indipendentemente dalla qualità intrinseca del prodotto ed esprimiamo pareri e valutazioni sugli automezzi anche se non siamo ingegneri meccanici. Riteniamo di aver capito perfettamente come funziona uno smartphone o quali siano le dinamiche dei titoli di borsa in funzione degli avvenimenti macroeconomici, in realtà in entrambi i casi abbiamo (forse) conoscenze molto superficiali tanto della tecnologia contenuta in un cellulare, quanto dell’economia politica dei paesi occidentali. Questo meccanismo spiega il comportamento dei tifosi di calcio, come del resto ci permette di comprendere il modo in cui esprimiamo una passione politica (le due attività per alcuni sono ahimè praticamente coincidenti).
Amiamo svisceratamente la squadra del cuore e le perdoniamo tutto: dalle sconfitte alla retrocessione, passando per scandali, corruzione e retribuzioni immorali ai nostri beniamini. Se ragionassimo con la logica dovremmo abbandonare quella squadra dopo un paio di campionati deludenti e sceglierne una più promettente. Gli effetti dei comportamenti dei tifosi di calcio sulla vita sociale di una comunità sono trascurabili (se si esclude la fenomenologia degli “ultràs”), ma se applichiamo lo stesso schema etologico alla politica le cose cambiano e cambiano parecchio. Tifare per un centravanti che non segna è frustrante, continuare a sostenere una squadra che lotta per la salvezza forse è stupido, tuttavia fortunatamente non incide sulla vita sociale. Ma quando ci “affezioniamo” a un politico corrotto, un ladro che magari è incompetente e non difende gli interessi della collettività, nemmeno di quella parte di società che l’ha votato, allora il discorso è diverso: le conseguenze sulla nostra vita ci sono, e pesano parecchio.

Ma torniamo alle ricerche della Stanford University: votare un candidato pregiudicato, rifiutarsi di accettare l’evidenza che si tratta di un criminale, credere alle sue promesse dopo che ha platealmente disatteso quelle fatte in precedenza, è stupido? È un comportamento riconducibile a scarsa istruzione? Basso quoziente intellettuale? Analfabetismo funzionale?
Sì e no.
A scanso di equivoci possiamo tranquillamente affermare che non si tratta di indice di genialità e nemmeno di grande cultura o capacità critica, ma si tratta (stando alle ricerche) di un comportamento strettamente collegato al nostro percorso evolutivo.

Cacciare nella savana con armi primitive, sotto la minaccia costante di predatori che la natura aveva dotato di muscoli, artigli, denti, udito e olfatto molto superiori a quelli dei nostri progenitori era un compito arduo. Il successo si basava sulla cooperazione. I nuclei degli ominidi riuscivano a sopravvivere se organizzavano la caccia e la difesa; singolarmente nemmeno i più evoluti sapiens-sapiens avevano probabilità di successo.
La cooperazione presuppone un atteggiamento ben preciso: la valutazione rapida delle capacità dei “compagni”, la fiducia nei loro confronti, la scelta di un “capo” che coordini le attività e la consapevolezza che basta una conoscenza superficiale di una cosa per poterla utilizzare. Ottenere una lama affilata da una selce non era facilissimo e gli archeologi dicono che non era un’attività svolta da tutti membri di un clan: se i primi rudimentali coltelli fossero stati usati solo da chi li sapeva fabbricare probabilmente non saremmo mai entrati nell’età del ferro.
Analogamente se un cacciatore preistorico non avesse riposto fiducia negli altri membri del gruppo disposti a ventaglio nella savana, non avrebbe catturato le sue prede con la frequenza che serviva a nutrire il suo gruppo. Qualche volta la fiducia era mal riposta e la preda fuggiva, oppure poteva accadere che uno dei cacciatori non vedesse che una tigre dai denti a sciabola si avvicinava con le conseguenze che possiamo immaginare. Ma in ogni caso la combinazione di fiducia, obbedienza e collaborazione era comunque la soluzione migliore per la sopravvivenza.
Questo è il motivo per cui, fatte le debite proporzioni, conviviamo e collaboriamo da millenni con i cani, che discendono dai lupi anch’essi animali gregari, mentre non abbiamo interazioni paragonabili con i gatti che sono cacciatori solitari. Sono eredità culturali ancestrali, che affondano le radici nel nostro processo evolutivo. Verrebbe da pensare che siamo una razza di imbecilli, per alcuni aspetti è vero, ma l’approccio scientifico ci permette di comprendere le ragioni dei nostri comportamenti e di modificarli per progredire. Attraverso i millenni abbiamo imparato a non praticare il cannibalismo e a rinunciare al rapimento a fini riproduttivi, le eccezioni esistono, ma sono statisticamente trascurabili. Smessi i panni dell’antropofago e del predatore sessuale (speriamo), dovremmo progredire e diventare pragmatici e critici anche nei confronti dei leader che eleggiamo.

Delegare il futuro di un paese a soggetti che non garantiscono di operare nel comune interesse è un errore, possiamo commetterlo. Lo sbaglio peggiore è rifiutarsi di comprendere di aver riposto la propria fiducia in modo errato e continuare a sostenere testardamente questi rappresentanti disonesti. Non è possibile essere certi che programmi e promesse elettorali si tradurranno in realtà, ma è doveroso cambiare opinione quando ciò non avviene.
Questa possibilità di gestire il cambiamento è la radice della democrazia e l’anniversario del 25 Aprile ne è la prova tragica e meravigliosa insieme, una pagina di libertà scritta col sangue. La liberazione dalla dittatura fascista è la dimostrazione che possiamo cambiare idea e cambiare la nostra società. In meglio.

L’ESTUARIO DEL PO. Cronache non necessariamente conformiste. Mario Bellettato è nato ad Adria nel 1956. Dopo gli studi classici e la laurea in giurisprudenza ha intrapreso una carriera manageriale che lo ha portato a lunghe permanenze all’estero. Ha lavorato come copywriter per alcune agenzie di pubblicità e si è occupato di formazione per l’Unione Europea. Ha pubblicato i romanzi “Il sognatore” (2015) e “Due perle” (2020).