Poteva il nostro Francesco Casoni, partito la settimana scorsa con una disamina degli aspetti identitari dell’elemento che più di tutti ci fa veneti (la polenta) non divertirsi a conguagliare pensieri su un piatto che ci fa mezzi ferraresi? No, non poteva. Eccolo allora lottare strenuamente, in questa nuova puntata dei suoi “Antipasti”, con i cappellacci e con le implicazioni addirittura internazionali che questo piatto della tradizione ci consegna.
Mezzo ramo del mio albero genealogico proviene dal ferrarese, in particolare da un paio di minuscoli paesi della zona di Portomaggiore. Una sorta di tradizione familiare, dunque, era la preparazione dei cappellacci in autunno. Ancora oggi ricordo con inquietudine le quantità di cappellacci, rigorosamente al ragù, svettanti sul piatto di mio nonno.

Una sorta di tradizione nella tradizione era comprare la zucca sulla strada di ritorno dalle vacanze al mare dei miei nonni ai lidi ferraresi, immagino per assicurarsi che anche la zucca, elemento fondante del ripieno, fosse ferrarese al 100%.
Ed ecco il punto: il pilastro di questo piatto della tradizione ferrarese – con numerose varianti in altre zone dell’Emilia e non solo – e delle mie tradizioni familiari, ricco di sapori e arcaiche suggestioni, è un ortaggio mai visto a Ferrara prima che qualcuno avesse la bella idea di portarlo in Europa dal Messico, una manciata di secoli fa.
Quanto meno, se dobbiamo dare retta a quanto sostiene mio nonno, che come tutti i ferraresi è piuttosto pignolo sulle tradizioni locali (da piccino, ad esempio, ho rischiato più volte di essere diseredato, per aver confuso i pregiati cappelletti ferraresi con i loro parenti, i tortellini bolognesi). Dunque, mio nonno solitamente precisa che la varietà di zucca ammessa nel ripieno dei cappellacci è la violina, da cuocere al forno.
La violina la conosciamo un po’ tutti, è la zucca lunga e dalla buccia arancione pallido, in genere ruvida. Tuttavia, questa varietà appartiene a quella famiglia di zucche che sbarcano gloriosamente nel vecchio Continente solo dal Cinquecento, sempre tramite gli spagnoli giunti dal continente americano, e che nei secoli sarà oggetto di svariate selezioni e incroci. Non so cosa mettessero i ferraresi nei cappellacci, prima delle scoperte colombiane: l’unica varietà autoctona che conosco era una zucca pallida, chiamata Lagenaria, diffusa in genere al Sud.

Un altro ingrediente imprescindibile per il cappellaccio ferrarese è la noce moscata: prodotta da un albero che, allo stato selvatico, raggiunge i 15 metri di altezza, non cresce spontaneamente nelle terre strappate alle paludose valli di Ostellato. La sua patria natia sono le isole dell’Indonesia, da cui le noci vengono importate già ai tempi dell’antico Egitto, per arrivare da queste parti solo sei secoli dopo Cristo. Nel 1100 sono richiestissime in Europa, a costi esorbitanti, dato il viaggio tortuoso che compiono per arrivare dalle Molucche attraverso il Medio Oriente.
Nel Seicento lo scontro tra inglesi e olandesi per il possesso dell’isola di Run, centro di produzione della pregiata spezia, porta ad una serie di guerre tra i due paesi: nel 1667 il trattato di Breda assegna agli olandesi le isole Banda (di cui fa parte l’isola) e in cambio cede agli inglesi l’isola di Manhattan, dove il villaggio di Nieuw Amsterdam sarà ribattezzato New York.
Non ci fosse stata la noce moscata, viene da pensare, Liza Minnelli e Frank Sinatra avrebbero avuto quanto meno grossi problemi di metrica, nel cantare quella celebre canzone dedicata alla Grande Mela. Decisamente questa spezia ha segnato il corso della storia mondiale.

Sweet Home Rovigo
Francesco Casoni, classe 1980, rodigino prima per accidente del destino e poi per ostinazione. Giornalista pubblicista, disegnatore, conduttore radiofonico, musicista (di scarso talento), scrittore, progettista, formatore, informatico autodidatta, cuoco, papà e dilettante in molti altri campi.
E’ autore dei romanzi “Le mille verità” (2017) e “I giorni delle cicale” (2021).
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