Pizza e pomodoro: c’è qualcosa di più elementare, assodato, quotidiano, nella cultura alimentare che ha sedimentato la nostra quotidianità? No: di più elementare no, di più complesso sì. Leggere per credere: Casoni Francesco da Rovigo ce lo spiega, e non delude mai.

A tredici anni o giù di lì, i miei genitori mi spedirono un paio di settimane in Inghilterra, per migliorare il mio inglese in una vacanza nella suggestiva località di Cirencester, in un college che ricordo lugubre e austero quanto quello di Hogwarts nei film di Harry Potter.

La prima sera, con l’evidente intento di omaggiare le nostre tradizioni gastronomiche, la mensa del college servì una reinterpretazione britannica della pasta, consistente in una ciotola di lacci da scarpe gommosi e sconditi. Difficile da dimenticare.
Molto più interessante l’iperproteica colazione all’inglese (pancetta, uova, fagioli), di quel maldestro tentativo di coccolarci.

Per sopravvivere lontano dalle nostre tradizioni gastronomiche, più di una sera raggiungemmo di nascosto – sfruttando una scala secondaria e una porta mimetizzata nella tappezzeria, giuro – una pizzeria interna al complesso, da cui tornavamo in camera con cartoni di pizza margherita fumante. Così, grazie alla pizza, ci sentivamo un po’ a casa.

Se è pur vero che nell’area mediterranea è sempre esistita una cosa chiamata “pizza” (un disco di pasta simile al pane con vari ingredienti sopra), la pizza per antonomasia in tutto il mondo è ovviamente la Margherita, ricetta napoletana che richiede pomodoro, mozzarella e basilico.
Il cibo più italiano che italiano non si può, dunque, non esisterebbe senza una pianta dalle piccole bacche, originaria delle Ande e poi misteriosamente trapiantata in Messico. Misteriosamente, dico, perché i primi frutti del pomodoro pare fossero piccoli e per nulla gustosi. Sia come sia, una volta attecchita in centro America, la nostra pianta viaggiatrice ripartirà a zonzo per il mondo grazie al solito Cristoforo Colombo.

Arrivata in Italia solo negli anni Quaranta del sedicesimo secolo, il pomodoro all’inizio è giallo, come ricorda il nome. Si afferma nella varietà rossa che conosciamo oggi sul finire del Cinquecento, ma la prima ricetta della pasta con il pomodoro si ha solo nell’Ottocento. Nella stessa epoca nasce la rinomata pizza Margherita, poi sparsa in giro per il mondo dai milioni di italiani emigrati all’estero.

Il pomodoro oggi si coltiva nell’orto di casa, in terrazzo, nella piccola azienda agricola locale, ma è anche uno dei prodotti emblematici di una filiera agroindustriale da decine di milioni di tonnellate, prodotti per il 60% in Stati Uniti, Italia e Cina.

I rossi frutti da cui nascono le conserve che compriamo già pronte al supermercato, sono in genere raccolti da braccianti pagati una miseria, spesso stranieri. La paga da fame serve a soddisfare il prezzo imposto dal mercato, cioè dalle grandi aziende che lavorano il prodotto, e quindi a noi per risparmiare una manciata di centesimi di spesa al discount.

Per paradosso, poi, la passata di pomodoro industriale viene venduta anche nei negozi africani a prezzo più vantaggioso di quello che potrebbe offrire il piccolo agricoltore locale. Così il piccolo agricoltore africano molla la zappa e va a cercare fortuna altrove. Magari nei campi italiani, a raccogliere i pomodori che lo hanno rovinato. Il cerchio si chiude.

E dell’altro italianissimo piatto, proprio quello che nell’antico college di Cirencester ci era stato propinato in una versione stracotta e scondita, ossia la pasta? Troppe sorprese in una volta sola potrebbero risultare fatali. Meglio parlarne la prossima volta.

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