A mio figlio Papozze piace. Ha dieci anni e gli piacciono gli spazi liberi da traffico, dove si può correre, dove non ci sono i pericoli che mettono in ansia noi genitori. A Papozze mio figlio corre con il gruppo dei suoi amici per le vie del paese; hanno l’impressione che il paese sia in mano loro, e di fatto è così. La grande piazza rettangolare ha in testa il Comune e intorno condomini: tutto è nello stesso stile, perché qui è stato costruito tutto dopo l’alluvione del 1951, che ha sommerso il centro del paese che prima stava dentro la golena del Po. Lo stile degli edifici è quello squadrato ed elementare dei geometri degli anni ’60-’70. Oggi un po’ in decadenza probabilmente perché ridipingere è un costo insormontabile per i condòmini. Anche nelle vie intorno alla piazza lo stile è più o meno lo stesso: casette dignitose con piccoli giardinetti curati, qualche palazzone grigio, un abitato che si diluisce via via fino a sparire nella vasta e serena campagna che circonda il paese; su tutto domina l’argine del Po, sul quale crescono come fiori marciti i resti di alcune case contadine, molte disabitate, comunque anche nel loro disfacimento più belle delle case tirate su più di recente. In tutto fanno quasi 1500 abitanti; che molti di essi siano anziani non lo dicono solo le statistiche dell’anagrafe, basta girare un po’ per il paese. Qui e negli altri comuni gli amministratori hanno lo stesso stile: sembrano più volontari in servizio permanente che amministratori, indipendentemente dal partito al quale appartengono: di fatto hanno gli stessi problemi e lo stesso modo di risolverli: usare al meglio le poche risorse che hanno ed impegnarsi per esaltare il senso di comunità. L’ho visto di persona Pierluigi Mosca, sindaco di Papozze, alla festa del patrono, impagliare gli spaventapasseri per partecipare al tema della serata del ventidue agosto: la premiazione dello spaventapasseri più bello. La sera prima la festa aveva un tema ancora più intrigante: indovinare il peso di un maialino che era anche il premio per chi indovinava. Non ridete, non c’è niente da ridere: in quella festa nella piazzetta di fronte al palazzetto dello sport (bello, nuovo, tutto in legno lamellare) si ritrovava una comunità evidentemente in crisi, ma ancora viva, ancora con la voglia di stare insieme, di tenere vive delle tradizioni; i bambini correvano come matti nella piazzetta, gli adulti erano seduti su dei tavoloni a mangiare piadine  e bere birrone spumose e dalle grandi casse vibrava forte Jerusalema: pompate alle feste di paese in estate le canzoni che due mesi prima in radio parevano fresche e potenti diventano povere e tamarre, anche quando sono dei capolavori; però tutti si divertivano ed erano sorridenti, stavano bene insieme. Le feste durano pochi giorni, a Papozze e altrove: ma il senso della comunità resiste e coloro che si impegnano per il paese sono percentualmente più di quanti ce ne siano in una città più grande. Mentre tornavo a casa dalla festa, dopo essermi commosso per le parole appassionate di Pierluigi Mosca, il sindaco, per la sua forza, per il suo impegno, per la sua ostinazione a resistere, mi chiedevo se Papozze morirà, se di qui a cinquant’anni qui ci sarà solo il Po a farla da padrone, il suo blaterare liquido un po’ dolce un po’ spaventoso; se ai piedi del grande argine ci saranno case decrepite, abitate da qualche decina di persone senza alternative alla miseria e all’abbandono. Non lo so: ci sono migliaia di situazioni di questo tipo in Italia. Ci sono forum, incontri, assemblee di amministratori, sociologi, urbanisti che fanno proposte, lanciano idee: le idee sono tante (valorizzare le tipicità, rilanciare un nuovo abitare ecosostenibile, incentivare l’agricoltura eccetera eccetera) ma sembra ci sia una forza più grande di ogni idea. Però persone che resistono, qui a Papozze e altrove, ci sono. Forse basterebbe ascoltarle e, prima ancora, sapere che esistono.

(2. Continua)

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