Nel 1940 negli Stati Uniti esce un film memorabile, Furore di John Ford. Film e regista sono vere icone cinematografiche; ma la cosa straordinaria è che, prima di essere un film indimenticabile, Furore (The Grapes of Wrath) è il romanzo indimenticabile di John Steinbeck, scritto solo un anno prima nel 1939.
Se c’è una cosa che lo scrittore americano sapeva fare era raccontare la vita delle persone. Non un racconto ragionato, contorto, plasmato sugli occhi di chi vede e narra, ma un guardare semplicemente, senza alterare aggiungere o togliere nulla.
Così Furore è il romanzo americano che semplicemente dà parola e forma alla grande depressione che tra gli anni Venti e Trenta del Novecento ha sconvolto gli Stati Uniti e da lì il mondo, travolgendo persone e cose senza pietà.
Cosa fu per donne, uomini, bambini, famiglie lo scossone che fece crollare l’economia mondiale, Steinbeck lo racconta attraverso la storia della famiglia Joad che perde tutto, deve lasciare la fattoria di proprietà e dall’Oklahoma iniziare un viaggio durissimo lungo la Route 66, attraversando mezza America per arrivare in California e lì tentare una nuova vita.

Non c’è nulla di epico nello sguardo di Steinbeck e neppure nel film di John Ford, che pure era un maestro dell’epica americana. Non c’è perché il dramma di padri, madri, figli, nonni – sull’autocarro scassato degli Joad viaggiano tre generazioni – è umano e la conquista della sopravvivenza è costellata di dolore e fallimenti, povertà estrema e senza sconti o intromissioni salvifiche. Insomma, vita.
Non è un caso che Furore di Steinbeck sia stato un successo letterario senza precedenti e sia stato accompagnato da polemiche durissime e controverse, dando vita a contese politiche e intellettuali. Così come non è un caso che, seppur crudo e crudele, il film dovette rinunciare a mettere in scena alcune parti del romanzo, pena la censura hollywoodiana e, nonostante questo, sia risultato ruvido e lucido, vincendo anche l’Oscar per la miglior regia.
Mi dilungo e esito su questi capolavori dello sguardo, dentro e fuori di noi, non perché sia stato rieditato il film o il romanzo veda nuova rinnovata luce – non ne ha bisogno, è disponibile in qualunque libreria e sempre lo sarà, spero, senza temere di passare di moda. No, sono partita da queste suggestioni perché mi è capitato tra le mani un libro uscito da poco per Bompiani, che in Italia pubblica tutti gli scritti di John Steinbeck.
Diario russo è il meraviglioso racconto di un viaggio. Pubblicato negli Stati Uniti nel 1948, esce ora in Italia in una bella edizione con pagine corpose, di grande consistenza. Le ha, non solo perché è scritto magnificamente, ma perché il racconto è anche visivo e dunque colmo di fotografie. Nel 1947 John Steinbeck e Robert Capa, che si conoscevano bene, anzi erano amici, decidono di partire per l’Unione Sovietica. L’anno prima è scesa ufficialmente, come una spessa nebbia, la cortina di ferro sull’Europa Orientale. La Seconda Guerra Mondiale è terminata da poco e in quella circostanza russi e americani erano stati alleati. Ora, d’improvviso, sono nemici calati in una guerra fredda che sarebbe durata a lungo. Ma la gente? Questo interessava a Steinbeck, e pure a Capa. Le persone come stavano, come vivevano? Se da una parte i popoli si osservavano dalla cima di una montagna sulla base di massimi sistemi, dall’altra non c’era nulla. Scrive Steinbeck: “Ci accorgemmo che c’erano cose che nessuno scriveva mai sulla Russia, cose che ci interessavano più d’ogni altra. Che abiti indossa la gente da quelle parti? Che cosa mangia a pranzo?… E come si fa all’amore e in che modo la gente va all’altro mondo?”.
I due vogliono vedere e conoscere le persone, nelle città e nelle campagne, dentro le case, al lavoro o nei locali. E per questa ragione si lanciano in un viaggio di circa due mesi nell’estate del 1947. Tra mille peripezie è il viaggio di due uomini caratterialmente diversi che, non solo si spostano da Mosca a Kiev a Stalingrado, e poi in Georgia e in villaggi sperduti, tristi o gioiosi, incontrando persone, animali e cose, abitudini e rovine, ma si scoprono reciprocamente con parole, immagini e lunghe attese.

Ciò che rende prezioso il libro sono i due racconti. La capacità di Steinbeck di narrare ciò che semplicemente vede, ha uno specchio potente e altrettanto incisivo nelle fotografie di Capa, che nella sua breve intensissima vita è stato uno dei più grandi narratori dello sguardo. “Capa tornò con circa quattromila negativi e io con parecchie centinaia di pagine di appunti. Ci siamo chiesti come descrivere il nostro viaggio, e dopo molto discutere abbiamo deciso di scriverlo così come si svolse, giorno per giorno…”.
Forse riesco a tirare le fila di questo intrufolarmi tra libri film e fotografie, dicendo che mentre leggevo Diario russo ho visto un vero film. Mentre assaporavo le parole capivo perché Steinbeck è un grande scrittore e Capa un grande fotografo. E perché durante tutta la lettura di un diario scritto in Russia nel 1947 ho avuto negli occhi il ricordo di Furore, ovvero dell’umanità raccontata per quello che è, meravigliosamente semplice e complicata, sola e confusa, disperata e allegra, schiacciata dalle macerie o capace di farne un regno. Eh, ma bisogna saperlo raccontare.
Annotazioni: segnalo che in Diario russo tutto è una chicca e poi ce n’è una speciale, un breve testo di Robert Capa che dedica all’amico uno sfogo, Un legittimo lamento, poche pagine che sono la sua fotografia scritta. Per Furore Steinbeck ha vinto nel 1940 il Premio Pulitzer e per l’intera sua opera nel 1962 il Premio Nobel per la letteratura. Suoi sono anche Uomini e topi, La valle dell’Eden e Pian della Tortilla, per citarne alcuni. Robert Capa era ungherese, ha lasciato tra le fotografie più belle mai scattate; è tra i fondatori dell’Agenzia Magnum Photos ed è famoso per i suoi reportage di guerra, quella civile spagnola – dove nel 1937 ha perso la sua giovane amata compagna Gerda Taro, fotografa come lui, raccontata nell’emozionante romanzo La ragazza con la Leica da Helena Janeczek, Premio Strega 2018 – il secondo conflitto mondiale, poi in Israele e in Indocina, dove è morto nel 1954. Aggiungo una breve nota anche sul regista John Ford, solo per dire che la sua filmografia è immensa ed emozionante, con quattro Oscar vinti come regista, record finora mai superato.

Al cinema e altrove
Elena Cardillo è appassionata di cinema e parole. In effetti i suoi studi sono stati di giornalismo e immagini in movimento. Di cinema si occupa nel suo lavoro, mettendoci ogni tanto anche qualche parola scritta.
Ringrazio di cuore l’autrice per la segnalazione. Un libro che non intendo perdere. Fra l’altro ho finito di rileggere Furore, dopo la lettura di anni fa e dove si legge apertamente che il cuore dello scrittore volge a sinistra, proprio la settimana scorsa e l’accoppiata USA URSS mi intriga molto.
Attratto dai nomi mi sono scapicollato su una libreria online per farmi recapitare in giornata il libro, e francamente all primo sguardo è un pugno nello stomaco. Temo che prenderà un dito di polvere o gli strapperò qualche pagina dal nervoso, possibile che con tutto il rispetto per l’editore Bompiani siano trattate le fotografie di Capa come le fotocopie di un corso dell’università? Proprio non si poteva raccogliere in un fascicolo in fondo le foto, con una carta migliore e una stampa non retinata queste foto di Capa? Sono e sarò sempre nel coro di chi dice “chi lavora merita rispetto”, quindi rispetto il lavoro della casa editrice, ma anche il lavoro di Capa merita rispetto! …e credo che le immagini originali di Capa siano molto meglio di quelle che vedo nelle pagine del libro.
Poi metti pure le foto su due pagine – costringendo il lettore a spaccare la costa del libro per vederla meglio – mi fa veder rosso. Volevo regalarlo a qualche fotografo ma mi trattengo, è un libro di peso e potrebbe mirarmi la fronte. Avviso chi compra il libro di andare prima di persona a sfogliarlo, sarò anche esagerante ma non compratelo a scatola chiusa.
Vedete da voi e ditemi pure che sbaglio,