Nessuno dei sistemi economici conosciuti sin qui aveva sviluppato meccanismi di difesa così efficienti come quelli del neocapitalismo. La società in cui viviamo si è dotata di una sorta di sistema immunitario estremamente sofisticato capace di inglobare e trasformare qualsiasi fenomeno che possa non solo metterlo in discussione, ma anche limitare i profitti delle multinazionali e delle grandi banche. Il neoliberismo è dotato di “anticorpi” che identificano qualsiasi personaggio, fenomeno, movimento, idea, libro, discorso che possa costituire una minaccia, anche potenziale. I linfociti del capitale agiscono a largo spettro: si va dalla delegittimazione coordinata dei soggetti pericolosi (da Assange a Gino Strada passando per Greta), alla creazione di soluzioni apparenti ai problemi reali o ancora alla diffusione di opinioni strumentali e non obiettive che disinformano e orientano l’opinione pubblica nella direzione desiderata.
Quando ha iniziato a diffondersi la sensibilità verso i problemi ambientali, per esempio, la risposta del “sistema” è stata molto efficace: bisognava eliminare alla radice il concetto di sostenibilità, perché il capitalismo risponde a dogmi incompatibili con qualsiasi concetto di sostenibilità: la crescita economica illimitata, l’aumento dei consumi spinto fino allo spreco e lo sfruttamento delle risorse naturali e umane senza limiti e tutele, perché tutto questo garantisce a imprese e finanza i profitti maggiori possibili. Se i combustibili fossili vengono (giustamente) additati come fonti di energia non ecocompatibili, ecco trovata la pseudo-soluzione: automobili ibride o elettriche, proposte a prezzi alti (con alti profitti), promosse con incentivi dai governi più o meno in malafede, che risolvono solo apparentemente il problema. Come verrà prodotta l’energia elettrica che servirà a milioni di auto e come saranno prodotte e smaltite le batterie necessarie alla flotta planetaria non lo sappiamo, ma possiamo immaginare che non sarà semplice, né economico e tanto meno a basso impatto ambientale. La soluzione più logica per salvaguardare l’ambiente sarebbe quella che vede lo sviluppo della mobilità pubblica attraverso reti di metropolitana e di mezzi di superficie a basso consumo. Questo avrebbe anche una grande ricaduta sulla qualità della vita nelle aree metropolitane, ma farebbe crollare il mercato delle vetture, comunque alimentate. Si perderebbero posti di lavoro? Forse, ma da un lato gli investimenti per lo sviluppo della mobilità collettiva avrebbero una notevole ricaduta e le tecnologie collegate avrebbero un impatto importante sull’occupazione e potrebbero costituire attività ad alto valore aggiunto da esportare nel mercato internazionale. Per non parlare del fatto che ormai i veicoli dei segmenti medio-bassi non vengono prodotti nel nostro paese (ironia della sorte acquistiamo auto prodotte all’estero e ci teniamo tutto l’inquinamento legato all’uso di questi veicoli sul nostro territorio: siamo “cornuti e mazziati”).
Del resto abbiamo visto gli effetti devastanti sulle foreste brasiliane delle coltivazioni necessarie a produrre il “biodiesel” (il gasolio buono!), e questo la dice lunga. La globalizzazione ha prodotto non solo l’impoverimento dell’occidente, trasformato da opificio in mercato, ma ha soprattutto spostato la produzione industriale in aree dove non c’è alcun controllo su smaltimento e gestione dei rifiuti, così una mezza dozzina di grandi fiumi del continente asiatico riversano negli oceani più del 60% della plastica che li sta soffocando. Non appena si profila all’orizzonte un fenomeno, un’idea, una tendenza che potrebbe mettere in discussione il sistema, ecco che si trova una “soluzione” che in realtà rafforza il capitalismo e questo “cambiamento” è sostenuto dalla propaganda dei media come la risposta ai problemi. In realtà generalmente non risolve i problemi e ne genera altri, che però scopriremo dopo qualche anno, così nel frattempo le multinazionali continueranno a fare profitti, perché nella logica capitalista il profitto rimane comunque la stella polare della società. I tonni e molte altre specie ittiche stanno scomparendo, e l’effetto sulla catena alimentare degli oceani e sull’equilibrio del pianeta sono insostenibili. Nessuno si arrischia a proporre quote contingentate né a limitare il consumo (basterebbe ridurre le porzioni delle scatolette e suggerire di integrare la dieta con proteine vegetali a km zero): tutto quello che si fa è scrivere sulle confezioni “pescato a canna” senza intervenire sulle flotte di pescherecci ad alta tecnologia che rapinano un patrimonio fondamentale per la sopravvivenza della terra. I colossi della carne (per capirci 4 aziende controllano l’85% del mercato della carne in USA e Canada) acquistano sistematicamente le startup che si occupano di “carne sintetica” e di carne prodotta con proteine vegetali: dato che i consumi di “finta carne” cresceranno vertiginosamente, i colossi dell’allevamento mettono fieno in cascina (è il caso di dirlo). Le conseguenze prevedibili saranno disastrose comunque, ma i consumatori penseranno di aver fatto una scelta ecologica acquistando le bistecche di sintesi o quelle di soia. Gli ettari di terra destinati a coltivare il mais per uso zootecnico, saranno convertiti alle colture necessarie per la carne sintetica, in termini di sfruttamento dei suoli e di spreco di risorse idriche non cambierà praticamente nulla.
La quinoa avrebbe dovuto essere un toccasana, un alimento salutare che ci avrebbe permesso di mangiare meno carne e di dare una mano alla produzione agricola di aree disagiate. Ma è diventata un’opportunità per il capitalismo, che l’ha promossa, messa negli scaffali dei supermercati a disposizione degli ecologisti light, quelli col SUV ibrido. Il risultato è stato terrificante: la domanda è cresciuta vorticosamente e migliaia di ettari sono stati disboscati per seminare questa pianta delle meraviglie. La tragedia più grande di questo periodo è costituita da coloro che pensano che possa esistere un capitalismo “buono” (anche Mussolini ha fatto cose buone ?!). Inorridiscono quando qualcuno dice che bisogna cambiare profondamente la società: pensano che chiunque si preoccupi del futuro sia un comunista e a fronte delle sue perplessità più che fondate gli ripropongono la storiella mal digerita dell’Unione Sovietica, delle file ai negozi, della caduta del muro… Se chiedete loro di limitare l’uso del riscaldamento o gli spostamenti in auto non necessari, vi rispondono che loro sono liberi, lavorano, guadagnano e dei loro soldi fanno ciò che vogliono. Come i cacciatori che si sentono in diritto di uccidere animali che non appartengono a loro, ma a tutti noi che invece (a maggioranza) li vorremmo veder sopravvivere indisturbati. I rivoluzionari degli ultimi due secoli volevano cambiare il mondo, speravano in una società più equa, ma i loro volti sono finiti sulle T shirt, prodotte in India a condizioni inumane e vendute negli outlet occidentali a prezzi assurdi: cerchiamo di fare un passo avanti, il progresso è fatto di pensiero astratto.

L’ESTUARIO DEL PO. Cronache non necessariamente conformiste. Mario Bellettato è nato ad Adria nel 1956. Dopo gli studi classici e la laurea in giurisprudenza ha intrapreso una carriera manageriale che lo ha portato a lunghe permanenze all’estero. Ha lavorato come copywriter per alcune agenzie di pubblicità e si è occupato di formazione per l’Unione Europea. Ha pubblicato i romanzi “Il sognatore” (2015) e “Due perle” (2020).