Il titolo originale è Jianghu Ernü, letteralmente: figli e figlie (Ernü) di fiumi e laghi (Jianghu). E il grande fiume che accompagna e fa procedere storia e protagonisti del film è lo Yangtze, il Fiume Azzurro, il più lungo dell’intera Asia. Spunta dall’altopiano del Tibet, nella provincia del Qinghai, procede a sud, taglia verso est e arriva a Shanghai, tirando una linea d’acqua che spacca in due la Cina.

I figli del fiume giallo (nella libera traduzione italiana) di Jia Zhangke è nelle sale ed è un viaggio.

Un lungo movimento che parte da nord, a Datong nella regione dello Shanxi, e arriva alle Tre Gole, dove scorre lo Yangtze, tra le umide regioni a sud ovest. Il viaggio di una donna, Qiao, e di un uomo, Bin che attraversano uno spazio immenso e un arco di tempo, dal 2001 al 2018.

Il fiume è la traccia che fa scorrere i protagonisti. Avanza insieme alle loro vite, li allontana e poi avvicina, sconvolge la morfologia del paesaggio e quella interna di Qiao e Bin.

Lui è un gangster locale che appartiene allo Jianghu, una cultura fatta di malavita e lealtà, con regole, valori e un codice di comportamento dettati dal Signore Guān, antico guerriero e simbolo spirituale, davanti al quale tutti devono essere sinceri.

Qiao è la donna di Bin, è coraggiosa, appassionata, libera, come sono state realmente tante figure femminili del tradizionale Jianghu. Ed è bellissima. Lo è, non solo esteticamente, ma nella sua umanità. Bin guida le sue attività con carisma e saggezza, lei si muove sicura al suo fianco, luminosa e spaziosa, a volte un passo avanti.

Vivono a Datong, un territorio freddo, aspro e depresso. Proprio lì una sera, mentre attraversano la città, vengono fermati da una banda che aggredisce brutalmente Bin. Qiao ha paura e ha con sé la pistola che lui le ha dato. È un attimo. Esce dall’auto e spara in alto, punta il branco, poi spara ancora a vuoto. Bin è a terra, la banda si disperde. Lei dichiara ostinata che l’arma è sua, sconta cinque anni di prigione, Bin è salvo.

Quando esce dal carcere lui, però, non è lì ad aspettarla e non è mai andato a trovarla. Qiao è una donna forte e lo cerca a sud, dove si è trasferito. Non è più un boss, non controlla né possiede nulla, ha un’altra donna e non vuole vederla. Ma lei sì, lo vuole guardare per mettere ordine nelle cose che li riguardano.

Gli occhi di Qiao sul mondo sono quelli del regista. Non è la solita considerazione banale. O magari lo è, però c’è davvero un percorso che lega la figura femminile del film alle terre desolate dello Shanxi – dove Zhangke è nato – e a quelle straziate del sud, dove il grande progetto statale di una diga sullo Yangtze stravolge un territorio enorme e il sistema di vita di migliaia di persone.

Alcune considerazioni del regista mi hanno colpito. L’idea che Qiao rappresenti una sintesi e un’evoluzione di diverse figure femminili già delineate nei suoi film. La fascinazione per la cultura dello Jianghu che, dice il regista, appartiene a coloro che non hanno dimora. E poi il desiderio di ricostruire una mappa visiva, inserendo nel film alcune riprese fatte tra il 2001 e il 2006. Solo una piccola parte di una quantità immensa di materiale che documenta luoghi e persone. Tasselli che compongono il mosaico di un cambiamento del territorio e della società a Datong, la sua città.

Queste immagini aprono il film, s’infilano nel respiro ampio della storia e, con il loro formato in 4:3 e una porosità spessa, mostrano il cambiamento. Sono volti di donne, uomini, bambini in viaggio. Tracciano lo spazio e marcano le differenze ad oggi.

Qiao procede con forza e lucidità dall’incanto al disincanto. La Cina pure. Ma i segni che le restano addosso non la spezzano. Per questo, più di ogni altra cosa, il film è il viaggio di Qiao.

Se guardo Zhao Tao, l’attrice che la interpreta, vedo il Fiume Azzurro, lento, possente, tenuto da dighe. Una figura con i colori di un caleidoscopio. Mai ferma, flessibile come un giunco, forte come una quercia.

Annotazioni: I figli del fiume giallo era in concorso a Cannes 2018. Il regista Jia Zhangke ha vinto diversi premi, tra i quali il Leone d’oro alla Mostra del Cinema di Venezia 2006 con il film Still Life. L’attrice Zhao Tao ha lavorato in quasi tutti i film di Zhangke; è anche la protagonista del bellissimo Io sono Li di Andrea Segre, duro e poetico, come sono poetiche le riprese di Chioggia e della laguna intorno; film premiato alla Mostra del Cinema 2011 e per il quale Zhao Tao ha vinto il David di Donatello come migliore attrice protagonista.

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