Il fascino discreto della borghesia prendeva forma a teatro. Là si esibiva l’economia dei vizi e delle virtù, si pubblicavano tutte le pieghe del proprio status e si mettevano in scena le nevrosi e i sospiri, corali e personali. Le famiglie più in vista si tassavano e costruivano il tempio laico della propria classe nel cuore di ogni città, anche la più piccola e isolata. Lì nasceva lo spazio civico come lo abbiamo conosciuto fino a quando non lo abbiamo sbiadito ed è diventato solo social.
Il teatro ha disegnato lo spazio pubblico tra Ottocento e Novecento. Poi la temperie del secolo breve avrebbe rimescolato tutto, a ferro e a fuoco, e più volte lungo nuove catene di valore. E così quei teatri perdevano smalto, fino a eclissarsi nella memoria degli archivi. È successo ovunque, anche in Polesine. Costa ricordarlo, perché qui tutto sembra piallato in un paesaggio marginale e la nebbia ha finito per ingoiarsi tutto. Eppure, qui un tempo si accendevano le luci di decine di teatri, spesso piccoli gioielli architettonici, lungo tutto il fiume, fino a Fiesso Umbertiano, Ficarolo, Bottrighe, Papozze, Gavello, solo per citarne alcuni.
A ritrovare quelle storie finite nell’oblio, ci ha pensato Sergio Campagnolo, alla guida di uno dei migliori uffici stampa e curioso degli anfratti di provincia, vera nervatura e fascino del Nordest. Si deve a lui la mostra I teatri storici del Polesine. Quando Gigli, la Callas e Pavarotti…, visitabile fino al 27 giugno a Palazzo Roncale di Rovigo. Prodotta dalla Fondazione Cariparo, è firmata da Maria Ida Biggi e Alessia Vedova e conta sulla splendida indagine fotografica di Giovanni Hänninen. Campagnolo racconta di essere andato a vedere la Collezione Balzan al Teatro Sociale di Badia Polesine, «ma a colpirmi di più è stata la visione del teatro, un gioiello incredibile, inatteso». E così, ecco l’idea di «narrare una magnifica storia tutta polesana».
I curatori mostrano le vicende di sette teatri tutt’ora aperti e ricostruiscono le tracce di oltre trenta. Un arcipelago di sale e strutture, «più di quanti non siano sopravvissuti oggi e di cui purtroppo è molto difficile recuperare informazioni attendibili», spiega Maria Ida Biggi, che all’Università Ca’ Foscari insegna Storia del Teatro. Racconta come all’indomani dell’annessione del Veneto all’Italia, l’indagine promossa nel 1868 dal Ministero dell’interno «rivelava un tessuto diffuso di fabbricati dedicati allo spettacolo». E poi la ricerca pubblicata nel 1907, a firma Luigi Grabinski Broglio, li descrive in dettaglio, compresi i cartelloni in stagione e gli spettatori. Così si scopre ad esempio che solo a Ficarolo c’erano «ben quattro edifici teatrali, il primo nella barchessa della villa dei conti Saracco, tra metà dell’800 e il 1870, a pianta rettangolare con loggia e palcoscenico permanente».
In alcuni casi le radici sono lunghe. È ad Adria che nel 1579 il rettore veneto Lorenzo Raimondi fa costruire uno dei primi teatri stabili a Palazzo Pretorio in piazza Maggiore. Poi il successo seicentesco dei drammi in musica spingeva per nuove strutture: è del 1683 il primo teatro pubblico a Rovigo aperto dalla famiglia Campagnella e del 1698 il Teatro Manfredini in via della Trinità, per conto di una società di nobili. In alcuni casi, come a Lendinara il fermento culturale già alla fine del Settecento, tra caffè letterari e restyling urbano, gettava le basi per un palcoscenico importante: il Teatro Ballarin apriva le porte nel 1814 con L’amor marinaro ossia il corsaro di Joseph Weigl. Un secolo dopo, l’attiva Società dei palchettisti portava la capienza a 600 posti, l’interno disegnato da Lorenzo Colliva, le decorazioni liberty di Carlo Baldi.
«Il cinema arrivò a Castelmassa agli inizi del 1870 – scrivono le curatrici – con proiezioni il sabato e la domenica», ma il fermento di veglioni, banchetti e comizi e la passione per l’opera e la musica facevano aprire un vero teatro, il Cotogni, chiamato così per l’entusiasmo suscitato dal baritono Antonio Cotogni con quel Barbiere di Siviglia andato in scena il 23 agosto 1884.
Il Polesine vibrava. Lo testimonia anche la visita a Rovigo dell’imperatore Francesco I d’Asburgo nel 1819: per l’occasione il Teatro della Società affidava all’abate Antonio Sonda, accademico concorde, L’ombra di Fetonte, musiche di Sante Campioni e a un nugolo di pittori le scenografie con un paesaggio di Occhiobello. Ma la sera del 3 marzo, l’Imperatore si trova indisposto, vanificando «un colossale sforzo organizzativo», come sottolinea Alessia Vedova. Allora i rodigini ci riprovano, fissando una nuova data, il 26 aprile e commissionando a Pietro Generali una nuova opera, Adelaide di Borgogna, libretto di Luigi Romanelli.
I teatri del Polesine sono anche la storia degli incendi e delle alluvioni, dei tumulti, del littorio e della Resistenza; sono la storia del cinema che sostituisce l’opera, per far posto poi a un lungo abbandono e a un nuovo recente recupero.
Giovanni Hänninen percorre quei teatri con la macchina fotografica, afferrandosi al rigore delle geometrie degli spazi e lasciando noi sul proscenio o su un palchetto, a osservarli, vuoti e muti. È come se ci spingesse dentro, in balia di un’atmosfera fantasmatica e solenne, che sia l’apparato sontuoso di Badia Polesine o gli ambienti asciutti di Loreo e di Lendinara o i ponteggi del restauro a Castelmassa.
Anche se l’allestimento della mostra non regge alla potenza visiva dello sguardo di Hänninen e al fascino che sprigionano le storie di quei teatri, il progetto espositivo suggerisce al Polesine di guardarsi dentro e indietro per ritrovare un tassello di orgoglio.
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Rovigo, Palazzo Roncale
fino al 27 giugno
I teatri storici del Polesine
Quando Gigli, la Callas e Pavarotti…
a cura di Maria Ida Biggi e Alessia Vedova
dal lunedì al venerdì dalle 9.00 alle 19.00
sabato, domenica e festivi dalle 9.00 alle 20.00
ingresso libero
catalogo: Silvana Editoriale, pagg. 111, euro 15
Per le immagini si ringrazia Studio ESSECI

MEMO.
Fabio Bozzato è giornalista freelance. Si occupa di culture e trasformazioni urbane. E di America Latina.