È uscito nelle sale italiane giovedì 23 maggio, data della ricorrenza della strage di Capaci.
Quel giorno del 1992 Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e tre uomini della scorta sono morti sull’autostrada A29 vicino Capaci, nel comune di Isola delle Femmine, per l’esplosione di due bombe. Il mandante di quella strage, come di tanti omicidi, era Totò Riina.
Tra gli anni Ottanta e Novanta la mafia siciliana, Cosa Nostra, era impegnata e aggrovigliata in una guerra per il territorio e il potere, combattuta a colpi di omicidi e stragi.
Una delle figure cardine è Tommaso Buscetta. Il primo grande pentito di mafia che ha scatenato l’inferno dentro Cosa Nostra. Lo ha fatto collaborando con i giudici. Lo ha fatto, soprattutto, attraverso un lungo e dettagliato confronto con Giovanni Falcone.
Tommaso Buscetta è Il traditore del regista Marco Bellocchio, in concorso a Cannes per la Palma d’oro.
Il film è focalizzato sulla figura del boss dei due mondi, nome che Buscetta si era conquistato per la vita, gli affari e la latitanza tra Italia, Brasile e Stati Uniti. Un personaggio forte e carismatico. Un uomo d’onore, come lui stesso affermava di essere con convinzione. Talmente d’onore da tradire il patto stabilito con Cosa Nostra, perché l’organizzazione aveva perso, secondo lui, i valori fondamentali.
Sul film ho sensazioni controverse. Lo sguardo di Bellocchio è intenso. Ed è intensa l’interpretazione di Pierfrancesco Favino, entrato in un personaggio spregevole ed eroico insieme. Un uomo di mafia che ha ucciso, trafficato, fatto montagne di soldi, e che però ha un codice al quale si attiene e per il quale diventa un traditore. Cosa Nostra tra gli anni Ottanta e Novanta è una bestia impazzita di cui non vuole più fare parte.
Durante la sua latitanza in Brasile, la guerra di mafia fa centinaia di morti, molti sono della famiglia Buscetta.
In mezzo a questo putiferio il boss viene arrestato ed estradato in Italia, dove stabilisce un patto di ferro con Giovanni Falcone. Un patto e un’amicizia.
Tutto questo è reso nel film con una certa potenza, un impatto anche emotivo e una lucida, minuziosa analisi storica. Cose che Bellocchio maneggia con maestria.
Mi è rimasto però un sapore strano in bocca. Una nota acidula che non mi ha mollato per tutto il film, tra l’altro, troppo lungo. Forse è una ridondanza. Una specie di urgenza eccessiva nel raccontare con dovizia di particolari, fatti e circostanze.
Di buono c’è l’utilizzo sapiente dei documenti di repertorio e un’accurata ricostruzione di fatti, circostanze, luoghi. Come l’aula bunker del maxiprocesso, avviato proprio grazie alla lunga e minuziosa deposizione di Buscetta e che ha portato alla condanna di 366 imputati per mafia. Oppure le conversazioni con Falcone, il carcere, le figure di Totuccio Contorno, Pippo Calò, Totò Riina. E ancora, le circostanze delle uccisioni dei parenti di Buscetta, tra cui due figli. Ogni cosa è ricomposta con una cura quasi amorevole.
Rimane però la sensazione, forte, di una serie di eccessi. Le lunghe sequenze dedicate al processo e ai confronti tra imputati. I tanti spostamenti, tra città, case, continenti, carceri. È come se tutto si fosse aggrovigliato e alla fine gli occhi e i pensieri, messi lì davanti, si fossero trovati nell’incombenza di sbrogliare una matassa un po’ troppo arruffata.
Eppure, riconosco a Bellocchio e a Favino il lavoro accurato nel delineare una figura molto difficile da digerire.
Chi era Tommaso Buscetta? Un boss della mafia, un uomo senza scrupoli ma d’onore, un latitante, un pentito, un collaboratore di giustizia, un traditore. Ha contorni complicati e però ha sfondato il muro del suono. Ha fatto tremare la piramide come mai prima e ha passato la vita sul ciglio di un burrone.
Aveva una sorta di scommessa aperta con Falcone, stabilire chi dei due sarebbe morto prima. Lui, Tommaso Buscetta, desiderava morire nel suo letto.
E in questo, a differenza di Giovanni Falcone, è stato accontentato.
Annotazioni: è davvero bravo Pierfrancesco Favino, ma lo è anche Luigi Lo Cascio (Totuccio Contorno). Nel film spesso si parla un siciliano molto stretto (reso comprensibile dai sottotitoli), una vera lingua che gli attori, tutti, e non solo i protagonisti, maneggiano splendidamente. Anche se i loro nomi hanno lasciato un’eco lunghissima, desidero ricordare i morti di Capaci: oltre a Giovanni Falcone e alla moglie Francesca Morvillo, ci sono gli agenti Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro.

Al cinema e altrove
Elena Cardillo è appassionata di cinema e parole. In effetti i suoi studi sono stati di giornalismo e immagini in movimento. Di cinema si occupa nel suo lavoro, mettendoci ogni tanto anche qualche parola scritta.