Sono entrata in sala con tanta emozione addosso e ne sono uscita ancora più palpitante e colpita.

Dolor y gloria di Pedro Almodóvar, nelle sale italiane da venerdì 17 maggio – appena dopo la presentazione del film a Cannes, dove concorre per la Palma d’oro – è un’opera piena, intima, dichiaratamente emotiva, senza cadere mai nel braciere dell’ovvietà e della stucchevolezza.

Dai registi bravi, quelli che hanno colpito più e più volte, che hanno definito uno stile, un tratto forte e riconoscibile, ci si aspetta sempre molto. E si fa sempre fatica a perdonargli mediocrità, confusione, grigiore. È molto ingiusto, perché le nostre aspettative non fanno mai i conti con i percorsi, i cambiamenti, gli “stranimenti”, in una parola la vita, di un autore. E a me viene da dire che, forse, prima di questo, l’ultimo film vibrante di Almodóvar è stato Volver (2006). Da lì a qui lo sguardo si è affaticato e un po’ perso, senza smettere di lasciare indizi di sé.

E poi arriva una creatura come Dolor y gloria a ricomporre l’animo, lo sguardo e il cuore.

Qui Pedro Almodóvar racconta se stesso. Il protagonista si chiama Salvador Mallo, è un regista con un grande passato, inchiodato in una deriva fatta di malattie sottili e somatizzate, forti nevralgie che gli procurano dolori fisici alle gambe, alla schiena, alla testa, e ora anche una protuberanza ossea, cresciuta su una vertebra cervicale che spinge e comprime l’esofago, gli impedisce di deglutire cibi solidi e a ondate gli blocca il respiro.

Uno stato di decadimento fisico che lo tiene recluso nel dolore e nella paura. Soprattutto quella di non poter più realizzare film, un vero terrore.

In questa deriva, la Cineteca di Madrid lo chiama perché ha restaurato un suo grande successo di trent’anni prima, Sabor, e lo invita alla presentazione ufficiale, insieme all’attore protagonista del film. Questa scintilla scuote Salvador dal suo torpore e lo precipita, da una parte in un’eco di ricordi che affiorano di continuo, dall’altra nella scoperta dell’eroina, aspirata con il fumo, in grado di sollevarlo dai dolori.

L’alter ego di Almodóvar è inevitabilmente Antonio Banderas, nel ruolo di Salvador Mallo. Perché hanno lavorato molto insieme, sono grandi amici e si vogliono bene, e sono complementari. Con lui, l’altra parte di Pedro, il suo femminile perfetto, Penélope Cruz, che interpreta Jacinta da giovane, sua madre. E quanto sono bravi tutti e due. Questo tornare alle origini cava fuori il meglio di loro. Lo fanno vedere bene che sono grandi attori e forse dovrebbero praticare di più questo cinema spesso, intendo dire di spessore, come la fetta di guanciale che si mette nella carbonara.

La storia di Salvador procede in un flusso di vera poesia e vero dolore, tra passato e presente. I ricordi si impastano alla stanchezza quotidiana e ai desideri mai realizzati. Mallo dopo tanti anni fa i conti, rimasti sospesi, con l’attore protagonista di quel suo capolavoro. Stana dal suo cuore l’infanzia vissuta solo con la madre. Ritrova per un momento il grande amore perduto, ma anche, ancora bambino, il suo primo desiderio per un uomo, El primer deseo.

Tutto questo, che sembra aggrovigliato ma non lo è, scorre fluido davanti agli occhi grazie a un segno essenziale, la cosa che più di tutte il regista voleva dire: nella deriva e nel dolore quello che salva il protagonista, e Almodóvar stesso, è il cinema. Senza questa forma di pensiero, di parola, di sogno, non sono niente. Non è un eccesso, ma il riconoscimento di ciò che, tra tutte le cose del mondo, li rende vivi.

Ci sono nel film molte parole fuori campo, quella voce off utilizzata dal cinema per raccontare, spezzare, unire. Nel flusso di immagini, colori cangianti e passaggi temporali, queste parole sono una punteggiatura ardente che dà al racconto visivo un fascino letterario. Dà anche l’idea della grande necessità di Pedro Almodóvar di mostrare la sua vita narrandone una romanzata, sua ma non del tutto sua. Probabilmente è questo che rende il film profondo e lieve, emotivo e lucido.

E poi ci sono i segni. Quelli che il regista lascia in giro come tracce distintive. I colori accesi degli ambienti e degli abiti. La musica che sembra fuori dal tempo. La teoria di personaggi che incarnano le fasi della vita: Salvador bambino, il bellissimo adolescente per il quale il suo corpo e l’animo si turbano, la madre giovane, quella anziana, il padre opaco, lui maturo.

C’è la casa di Mallo, un santuario bellissimo, ricostruzione fedele della vera casa di Almodóvar. Infine, un dettaglio poetico, le fotografie lasciate in giro sopra i mobili e alle pareti, tra finzione e realtà, alcune sono le vere foto di famiglia del regista.

Non è facile raccontare se stessi, tantomeno in letteratura e al cinema. Forse il vero modo è farlo mescolando realtà e finzione. Quello che si è stati veramente e quello che sta nel sogno e nel desiderio. La vita di qualcun altro che però, in fondo, è la nostra.

Annotazioni: Dolor y gloria di Almodóvar, dunque, è in concorso a Cannes, insieme a registi come Jim Jarmusch, Terrence Malick, i fratelli Dardenne, Quentin Tarantino, Ken Loach, Marco Bellocchio e altri ancora. Croisette aperta fino al 25 maggio, vediamo chi la spunta.

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