Come anticipato domenica scorsa, iniziamo da oggi ad incontrare uno dei protagonisti di “Fabula veneta. Incontri con scrittori, editori, poeti” di Maurizio Caverzan.

Cominciamo con Nicola De Cilia, critico letterario e insegnante. Collaboratore storico delle riviste Lo straniero e Gli asini, i suoi ultimi libri, pubblicati entrambi da Ronzani, sono Saturnini, malinconici, un po’ deliranti. Incontri in terra veneta (2018) e Geografie di Comisso. Cronaca di un viaggio letterario (2019). Vive e lavora in provincia di Treviso. Ha firmato la prefazione di “Fabula veneta”, che riportiamo integralmente:
VENETO POSTUMO Se qualcosa può significare essere “scrittore veneto”, oggi, credo abbia a che fare con l’assenza.
La prima assenza, su cui insistono molti degli scrittori qui intervistati da Maurizio Caverzan, è relativa alla civiltà contadina. Gli autori più anziani, e mi riferisco a Fernando Camon (1935), Luciano Cecchinel (1947) e Francesco Permunian (1951) sono nati all’ombra di quella cultura, che nel Veneto ha resistito più a lungo che altrove, e hanno avuto modo di assistere alla sua scomparsa. Testimoni di quello che, per molti aspetti, viene considerato un vero e proprio “genocidio culturale”, ritengono sia stato dissipato in pochi decenni un antichissimo patrimonio senza sapere bene con che cosa sostituirlo. «Narro il prezzo del progresso», dice con amarezza Camon.
Anche tra gli autori più giovani c’è chi, come Francesco Targhetta (1980), osserva che «il cambiamento qui da noi è stato talmente rapido e violento da stimolare gli scrittori di queste terre a essere più lucidi di altri nell’indagare il disagio. Passare rapidamente dalla povertà alla ricchezza spinge la letteratura a soffermarsi su ciò che è stato perduto». Ma, continua Targhetta, libri come Works di Vitaliano Trevisan e Cartongesso di Francesco Maino – spietate radiografie del Veneto dopo l’implosione di quella civiltà – sono libri che appartengono alla letteratura italiana tout court: definirli con la comoda etichetta di “letteratura del Nordest” risulta riduttivo.
Una seconda assenza è quella del “paesaggio”: Guido Piovene, nel suo Viaggio in Italia (1957), descriveva i luoghi tra Vicenza e Treviso «per metà natura e per metà quadro [che] vive e si guarda vivere, e si compiace di se stesso», un paesaggio caratterizzato da «un massimo di equilibrio e di grazia» (1). Quel paesaggio risulta ora trasformato quasi ovunque in periferia diffusa e anonima, dove, tra rotonde e viadotti, spuntano in modo disordinato capannoni e villette: «quello che viene eretto è al novanta (90) per cento una merda scenografica che per convenzione sociale chiamiamo casa, o residence, o complesso, o villaggio residenziale, o soluzione abitativa, unità immobiliare, appartamento in villa, villa di testa, o bivilla o villula o villetta a schiera, porzione di bivilla, o villone ripieno, villetta isolata, villa doppia, casa villereccia, villa rustica, rustico in villa: ma sempre e in ogni modo merde di costruzioni» (2). Oppure: «Malgrado lo squallore del paese di Alte Ceccato, in cui l’hotel era stato costruito, nato negli anni Cinquanta intorno a una grande fabbrica, la Ceccato appunto, ora in rovina, composto da un conglomerato di condominî dell’epoca senza alcun pregio architettonico, ingrigiti dallo smog, con un classico impianto viario a scacchiera, senza un centro, stretto tra ferrovia, autostrada e trafficatissima statale, il luogo era a suo modo ideale: vicinissimo al casello autostradale, equidistante da Vicenza e Arzignano» (3).
In realtà, secondo Gianfranco Bettin (1957), gli scrittori veneti continuano ancora a essere accomunati dall’attenzione al paesaggio, vissuto come un’estensione del soggetto, sia che si narri il (nuovo) paesaggio urbano venutosi a creare, «sporco e velenoso», sia quello naturale, ridotto comunque a «residuo selvatico»: il suo ultimo romanzo Cracking (4) si muove attraversando entrambe le dimensioni. Anche il dialetto come lingua domestica – che col paesaggio ha sempre avuto un rapporto molto stretto – rimane, per Bettin, una sorgente infinita, radicata in un luogo ma aperta al tempo, al mondo, con cui il Veneto ha da sempre un rapporto di curiosità e di nutrimento, economico e culturale. Il poeta Luciano Cecchinel ammonisce, però, che non si può deturpare il paesaggio senza che questo produca dei contraccolpi nel nostro stato mentale come nella nostra lingua. «Noi siamo il paesaggio che vediamo», afferma, e sembra difficile dargli torto.
Ma, sfogliando le interviste di altri scrittori, ci si accorge che non tutti concordano con queste affermazioni ed emergono visioni contrastanti, giudizi più sfumati. Tiziano Scarpa (1963), per esempio, in modi sornioni, contesta l’esistenza sia di una sensibilità comune sia di tematiche, urgenze e istanze condivise, «perché ciò negherebbe la potenza ideatrice e significherebbe che noi siamo semplicemente il prodotto di una situazione, come muschio su una pietra». La letteratura è trascendenza, continua, si scrive al di là di ciò che si è: «la letteratura è l’occasione per fare un’opera d’arte con le parole». E aggiunge: «La parola “Nordest” non ha molto senso: non è sentita da chi ci abita, ma da chi guarda a queste regioni da fuori. Esistono le affinità di passione, che non sono necessariamente affinità di poetica». Sulla stessa linea Giulio Mozzi (1960): «Mi dà sui nervi il tentativo di costituire un’identità veneta, che a ben guardare, non ho mai davvero vista».
Ha ragione ancora Bettin, dunque, quando osserva che «la caratteristica che rende straordinario il Veneto è la sua varietà. È difficile riassumere il Veneto in un’immagine sola perché la sua caratteristica è proprio di essere tante cose. È una realtà figlia di una sorta di barbarie creativa». Pare valga anche per i suoi scrittori.
La terza assenza è quella di dio, imploso insieme all’universo contadino, di cui costituiva l’imprescindibile orizzonte di riferimento. Andrea Zanzotto, alla fine degli anni ’80, parlava di un humus comune che caratterizzava la letteratura dei veneti, un humus di difficile definizione, tra le cui componenti fondamentali vi era il bisogno più o meno dissimulato di un rapporto con l’orizzonte metafisico: si poteva ravvisare nelle opere di molti scrittori (penso in particolare ai romanzi di Giuseppe Berto e ai racconti di Dino Buzzati) un rovello religioso, un confronto all’orlo del blasfemo (5). Un’eco profonda di quel rovello sopravvive nelle opere di Francesco Permunian, cataloghi dell’infamia e della malinconia, pieni di crudeltà e amarezza, ma mai prive di compassione. «Io sono l’estremo margine di quel mondo contadino – afferma caparbio Permunian –. Non sarò mai uno scrittore metropolitano. Spetta ai veri scrittori narrare questo vuoto, questa crisi, non solo veneta ma internazionale. L’unico angolo in cui può ancora nascere la scrittura è quell’angolo di inferno che ogni vero scrittore si porta appresso fin dai primi anni. Un vero scrittore nasce da una impavida solitudine».
Se questa tensione, che chiede conto a dio del suo silenzio e della sua indifferenza alle sorti degli uomini, è ravvisabile nell’autore polesano, per il resto, gli scrittori veneti d’oggigiorno sembrano trascurare il problema di dio, accettando “l’assurdo” della sua assenza senza troppe remore. La letteratura, difatti, riflette le dinamiche di una società occidentale oramai pienamente secolarizzata, approdata a un nichilismo pacificato, apparentemente privo di asprezze e di inquietudini, colmando il vuoto lasciato da dio in modi diversi, che hanno sempre più spesso a che fare con la tecnica o il consumo coatto. Ma se è vero quello che dice Mariapia Veladiano (1960), la cui intervista chiude il libro, che c’è più teologia nella letteratura che nei trattati, se davvero dio è sepolto da qualche parte, la sfida sarebbe allora di riesumarlo nelle storie di Vitaliano Trevisan (che non a caso si è nutrito a lungo di scrittori come Samuel Beckett e Thomas Bernhard), che nulla condivide con la Veladiano eccetto l’anno di nascita e la città di origine (la Vicenza di Antonio Fogazzaro). «C’è il caos», risponde lo scrittore alle sollecitazioni di Maurizio Caverzan che gli chiede se creda o meno in un destino. «Tutto il resto è un tentativo umano di dare una parvenza d’ordine». Nel suo mondo di ossessi stralunati, di personaggi feroci e fragili al tempo stesso, circola un’aria di acquietata disperazione, non molto diversa da quella dei libri di Michel Houellebecq, più volte evocato in queste pagine, che, come Trevisan, ha raccontato la morte di dio e la sua inumazione, evidenziando l’abisso sopra cui (tra)balla questa nostra modernità postuma.
NOTE: (1) Guido Piovene, Viaggio in Italia, Baldini e Castoldi, 1993; (2) Francesco Maino, Cartongesso, Einaudi, 2014; (3) Vitaliano Trevisan, Works, Einaudi, 2016; (4) Gianfranco Bettin, Cracking, Mondadori, 2019; (5) Andrea Zanzotto, Aure e disincanti, Mondadori, 1994.

“Fabula veneta” è disponibile nelle librerie Apogeo ad Adria (RO), Ubik piazza Vittorio Emanuele II e C.C. La Fattoria a Rovigo, Il Libraccio a Rovigo, Jolly del Libro a Verona, Bonturi a San Bonifacio (VR), Traverso a Vicenza, Bortoloso a Schio (VI), La Bassanese a Bassano del Grappa (VI), Mondadori a C.C. Ipercity Albignasego (PD), Zabarella a Padova, Il Mondo che non vedo a Padova, Limerick a Padova, Pangea a Padova, Libraccio al Portello a Padova, Lovat a Villorba (TV), Ubik a Treviso, La bottega di Manuzio a Mestre (VE), Il Leggio a Sottomarina (VE), Moderna a San Donà di Piave (VE), Ubik a Castelfranco Veneto (TV), Tralerighe in libreria a Conegliano (TV), Agorà a Feltre (BL), Le due zitelle a Belluno, Al Segno a Pordenone.
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