In questi giorni di forzato isolamento fisico, ho ripensato a quanti progressi ha fatto la medicina, soprattutto dopo la fine del secondo drammatico conflitto mondiale. Non si è trattato di un processo veloce, per la verità, perché ancora a metà degli anni Cinquanta del secolo appena passato, c’erano miei coetanei colpiti dalla poliomielite, dalla tubercolosi, per non parlare di altre malattie contagiose che hanno seminato panico e morte in tutto il mondo, come è stato, per esempio, con l’influenza asiatica. La ricerca, lo studio, la specializzazione nella medicina, che da generale è diventata via via più approfondita in singole materie, ha fatto miracoli. 
Anche nella nostra Italia si sono fatte avanti specialistiche come la Cardiologia, la Pneumologia, l’Oncologia, la Medicina Nucleare, la Microbiologia, la Diabetologia, la Nefrologia con le cure per le malattie del ricambio, per non parlare della robotica utilizzata in chirurgia, tutte discipline entrate a pieno titolo nel Sistema Sanitario Nazionale che, per quanto da noi criticato, è invece uno dei migliori del mondo.  Credevamo, pertanto, di essere protetti al cento per cento nella nostra salute, non soltanto da terapie efficaci su malattie note, ma anche da vaccini preparati per evitare guai alla nostra salute, tanto da farci pensare di essere immuni da rischi di ogni genere.
Ma, invece, ecco che arriva un virus tremendo, che ha preso di sorpresa tutti noi, compresi medici e ricercatori, rimasti spiazzati dalla rapidità con la quale si è diffuso in tutto il mondo, causando la morte di molte persone, la degenza di un numero ancora imprecisato di contagiati e, appunto, l’isolamento di gran parte della popolazione di ogni continente. Pare, almeno finora, che non abbia attaccato il continente africano, quasi a gratificare persone che ne hanno già abbastanza di pensieri a cui badare.
Ce la caveremo? È la domanda che in cuor nostro ci facciamo tutti i giorni, da quando apriamo gli occhi al mattino e fino a notte tarda, prima di prendere sonno. Mah, forse sì. La speranza è nella scienza e nella velocità nella produzione di vaccini, da somministrare il più rapidamente possibile a tutta la popolazione. Questa è l’attesa soluzione. 
Ma noi, ora, cosa possiamo fare? Seguire le norme igieniche e i consigli che radio e televisioni impartiscono con cadenza quasi ossessiva? E, ancora, restare isolati, evitando il contatto con altre persone, familiari compresi? Sì, certo, ma cosa facciamo di noi, delle nostre abitudini, del nostro vivere quotidiano, scandito da tappe fisse, ora che siamo obbligati a restare a casa?: la sveglia, il lavoro, il caffè al bar, il pranzo veloce per non far tardi al rientro, il giretto in piazza con finale a spritz, la conferenza, la musica o lo spettacolo a  teatro, la visione dell’ultimo film in uscita, la cena con gli amici, la gita sui colli, la vacanza sulla neve, il viaggio alle Canarie per trovare il tepore d’inverno, la Messa della domenica, l’attesa dell’arrivo festoso della Pasqua. C’è evidentemente un mondo che si accontenterebbe anche di meno, ma, certo, le abitudini sono dure a morire e fanno parte della nostra vita. E allora?
Beh, poiché non abbiamo tante alternative all’isolamento, bisogna farsene una ragione, perché, si dice, e dobbiamo convincerci che è così, è per il nostro bene, per la salute nostra, dei nostri cari e del mondo intero, con l’obiettivo di isolare il virus, prima di sconfiggerlo, mettendo in atto una tattica, anche se tardiva, di accerchiamento, fino ad agguantare la corona malefica e annientarla. Mah! Facciamo tutto quello che ci dicono, con senso civico e amore per noi e per gli altri. 
Ora, in questa isola non proprio felice, dobbiamo fare una cosa a cui, forse, non abbiamo mai pensato fino in fondo. Cercare di riscoprire noi stessi, scrutando nel nostro animo fino in fondo, per rivedere momenti belli della nostra vita, verificare se i sogni della giovinezza si sono realizzati, se esiste ancora la passione e l’amore. E con il bello, non andrebbe male rimuovere i macigni, i sassolini, la polvere che nel tempo si è adagiata sulla nostra memoria, e porre tutto sulla bilancia. Perché il nostro tempo potrebbe essere finito da un momento all’altro, non soltanto per l’incombente ossessionante virus, naturalmente, ma perché le tante conoscenze fin qui acquisite, non ci hanno ancora aiutato a scoprire il momento preciso in cui la nostra presenza su questo meraviglioso pianeta cesserà. 

Carlo Piombo è nato a Pontecchio Polesine nel 1943. Ha operato per quasi cinquant’anni, con diversi incarichi, nel campo della bonifica e dell’irrigazione, concludendo la sua attività lavorativa come direttore generale del Consorzio Polesine Adige Canalbianco, il più esteso della provincia di Rovigo. È stato sindaco di Rovigo, presidente dell’Usl n. 30 e cofondatore dell’Orchestra Regionale Filarmonia Veneta, di cui è stato presidente per un decennio. È autore di numerose pubblicazioni tecniche sulla bonifica, del racconto Stefano dal violino e del romanzo Una vita in 56 giorni. Con Apogeo ha pubblicato il romanzo Battiti di cuore e la raccolta di pensieri, poesie e racconti dal titolo Terra e cielo. Il suo romanzo più recente è La profezia del véciu d’la croda.

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