Ho conosciuto Giorgio Meneghetti, persona molto schiva,  in sordina a Padova ed ho potuto apprezzare piano piano il suo impegno nella fotografia, per il suo rigore formale nella composizione minimalista ma pregnante, che gli deriva dal suo essere architetto e direttore di progetti, senza mettersi in mostra ma lasciando voce ai suoi lavori.

Prima una street in un bianco e nero non stridente, mai troppo contrastata con toni sfumati, in un incontro di persone nelle città, nelle gallerie d’arte, nelle chiese, sempre molto rispettosa, ma anche divertente, ironica, con una ricerca del fatto che deve accadere, in una attesa attenta, paziente.

Sono persone, bambini, anziani sulla porta di un negozio o vicino ad una vetrina con una scritta contrastante, personaggi pittoreschi certamente non messi in posa ma decisamente adatti alla scena che diventa una rappresentazione teatrale.

Poi la street è diventata a colori e dopo anni di ricerca ha assunto una nuova via, come esito di un percorso e scelta post pittorica che nel progetto “Memorabilia” esposto in luglio al Festival della fotografia di Arles ed ora a Padova, ci porta a fotografie che sembrano quadri minimalisti, concettuali.

Permane la parte del disegno e composizione che è consona ad un architetto, che qui si trasforma in “impronte”, in un lavoro che lasci un segno e sono i segni del tempo in giro, e questo è il futuro delle città, documentato con foto pulite in “un luogo non luogo” anonimo, che può essere ovunque, uno spazio ideale metafisico che Meneghetti cerca di trasmettere.

Il fruitore delle sue immagini deve superare il primo livello di lettura superficiale, per guardarle con “un gusto lento”, in un modo più profondo, perchè esposte diventano autonome, sfuggono dalla paternità dell’autore in quanto vivono di luce propria: prima era il fotografo che andava in cerca ed ora sono loro che vanno da lui perché entra in sintonia con esse.

In questi scatti c’è luminosità, pulizia, la quasi totale diminuzione della tridimensionalità, ora due dimensioni, ma il risultato non è piatto, poiché esiste una profondità concettuale, anche se non c’è la prospettiva architettonica, è giocato sulle suggestioni.

Questi spazi senza luogo, apparentemente non riconoscibili, hanno a che fare col tempo, sono impronte nel passato, nel presente e nel futuro ed è un percorso modificabile, che si evolve giorno dopo giorno, ”in fieri”.

Questo progetto che è pensato ma non costruito schematicamente a tavolino, perché non c’è una costruzione dell’immagine, parte da un percorso culturale ed interiore, con la scoperta del sé, in una fotografia concettuale non preordinata, spontanea, connessa con la maturazione, con una riflessione personale sulla vita, che assume una valenza simbolica.
Mi confronto con Giorgio Meneghetti, un uomo sempre molto posato, pacificante, in armonia con le sue creazioni artistiche, sul senso della  fotografia oggi, sull’essere un cantore, un fruitore di emozioni.

Mi risponde che per lui la fotografia è un esito, non ha un intento narcisistico, è una fotografia autentica che rispecchia la tua personalità, alla ricerca di qualcosa di diverso, ed ora applicata ai muri, non sono banali murales, fotografati da tutti,  ma un muro che si scrosta, che diventa pittorico in quanto segno e traccia del tempo.

Ecco quindi un artista autentico e consapevole, perché i risultati sono ciò che hai voluto, con una scelta cromatica che rispecchia il suo modo di sentire, con scatti leggermente sottoesposti, attenuando i contrasti forti, e così anche nelle foto in bianco e nero non più con contrasti esasperati, bianchi bruciati e neri profondi.

Esiste una coerenza formale e strutturale simbolica che diventa pittorica fino ad una astrazione intimista con un velo di malinconia ed è la vita che scorre, “tempus fugit inesorabile” con l’illusione di poterlo fermare con queste opere delicate e raffinate, che ti portano in luoghi dell’anima, entrando nei pertugi e nelle aperture di questi muri nascosti, da dove forse non si tornerà mai più!

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