Lo spazio curvo dietro il palco era diventato una sala da pranzo, la direzione tratteneva il costo di quello che definiva “cena” dalla paga delle ballerine. L’arredamento consisteva in sei tavolini da bar degli anni ’60 e una ventina di sedie di resina bianca, oltre ad un poster sbiadito di una corrida le sole decorazioni alle pareti erano macchie di cui era meglio non immaginare l’origine. Le ragazze si affrettavano a finire quello che comunque era il pasto principale della giornata, ridevano nervosamente: si preparavano a incontrare le belve feroci, come gladiatori pronti a scendere nell’arena. La sala si svuotò rapidamente, restavano l’odore di fumo, di fritto e profumi femminili troppo marcati. Sui piatti c’erano resti di cibo, salviette macchiate di rossetto, accanto languivano bicchieri spaiati e i posacenere con le sigarette fumate a metà.

Pina rassettava, era troppo vecchia per “fare sala” e stava in cucina; le vite precedenti le avevano lasciato il trucco pesante e una grande abilità nel capire rapidamente chi aveva di fronte.
Roby, il tappabuchi, le piaceva. Apriva la serata con il night ancora mezzo vuoto e andava d’accordo con tutti: le ragazze, i proprietari, l’orchestra e qualche volta persino con se stesso.
Stava mangiando frittata fredda, attento a non macchiarsi. I pantaloni dello smoking gli andavano stretti, ma sul palco non si notava. 
Roby sapeva che al pubblico non importava come cantasse, a quelli dava fastidio qualsiasi cosa che ritardava la nudità delle spogliarelliste.

Andava avanti così da un pezzo, cinque notti a settimana a riproporre un repertorio di Sinatra, Bennet, Bruno Martino… Walter lo accompagnava al pianoforte: arte inutile per un pubblico che si ubriacava in attesa delle veneri di provincia col nome esotico.
Quelli che avevano fortuna o soldi da spendere salivano all’ammezzato, a fare sesso nei palchetti che si affacciavano sulla platea.

“Il caffè, Roby…” Pina appoggiò la tazzina sul tavolo “Ho messo il miele, per la voce…”
“Tu sei il meglio pezzo qui dentro, lo sai vero?” Roby si alzò e le baciò la guancia.
“Ci sei?” dalla porta di servizio era entrato Walter, lui cenava a casa. Indossava la giacca bianca con i revers di raso, una reliquia delle stagioni passate sulle navi da crociera.

La luce rossa intermittente ufficializzò l’inizio della serata, si incamminarono nella curva che portava al palcoscenico: Walter sedette al pianoforte, Roby aggiustò l’altezza del microfono e rivolse un sorriso complice alla platea. Si intravedevano solo le prime due file di poltroncine, quasi vuote, e più oltre solo braci rosse di sigaretta. L’annuncio registrato, in francese, dava il benvenuto ai clienti e presentava le attrazioni, cambiavano ogni due settimane. 
La voce di Roby iniziò a riempire l’oscurità, seguiva la corrente della musica come una nave che ha lasciato gli ormeggi, i colori delle note si mescolavano al buio azzurrino e ai coni di luce dei faretti.

Un’ora scarsa, quindici pezzi in sequenza scanditi dal pianoforte, poi di nuovo l’annuncio registrato: iniziava lo spettacolo vero.
Roby salutò il pubblico con un altro sorriso e mezzo inchino, strappò un paio di applausi da un angolo buio e rientrò nel corridoio. Fece un cenno di assenso a Walter e si diresse al bar in fondo alla sala.
C’erano un paio di abituè appollaiati sugli sgabelli, sorvegliati da Carlone, il barman. Appena vide Roby versò un bicchiere di bourbon e lo appoggiò sul banco. Eléna, una colombiana formosa che farciva un abito argentato, aveva adescato un cliente e sorseggiava un drink sorridendogli dolcemente. 
Roby li osservò: una coppia improbabile tenuta insieme dal desiderio e da un prezzo concordato. Nel mondo reale non avrebbe funzionato, ma il night era zona franca, una dimensione parallela dove per qualche ora tutto, quasi tutto, diventava possibile. 

L’intero locale era finzione, ammezzato compreso: un teatro per copioni poco originali e scritti in fretta, con i faretti al posto delle stelle e una luna elettrica rivestita di specchietti. 
Roby sentiva il calore del whiskey scendere nella gola, pensò alla sua vita, scandita dalle serate al night, senza prospettive. 
Aveva sperato che fosse un ripiego temporaneo in attesa del successo, ma le scritture non arrivavano. Aveva provato con le feste di paese, ma era ancora peggio: pensionate ipertese con i capelli cotonati che volevano le canzoni dei Ricchi e Poveri.

“Non c’è richiesta per i crooner” aveva sentenziato Bettinazzi, il suo agente. Un geometra con i capelli tinti che parlava per slogan dei quali non capiva il significato: “oggi piace roba diversa… trova un autore che ti scriva qualcosa di attuale… la voce ce l’avresti!”
“Sono diventato come i clienti del night” pensò a voce alta.
Vero: fuori del night la sua vita non esisteva. Si rifugiava in quel limbo fumoso per nascondersi, lì fino all’alba le regole erano diverse. 
Sentiva di avere perduto qualcosa di importante: l’entusiasmo, la voglia di vivere. Non aveva progetti per il futuro… persi anche quelli chissà dove, non li trovava più. Era una perdita struggente… era finita la giovinezza.

Lo spettacolo continuava, una mulatta con le labbra carnose si contorceva insieme a un pitone opportunamente sedato, l’orchestra cercava di andare a tempo assassinando una versione apocrifa del Dio Serpente: il peccato originale spiegato al popolo.
“Che allegria! Al cimitero ridono di più…” il commento a voce alta era di Jeanpierre. Di lui si conosceva solo il nome, dicevano che era un duro, tutti lo trattavano con rispetto. Entrò insieme a un vecchio scuro di pelle e a una rossa ubriaca con la gonna troppo corta. 
“Ehi, Aznavour, come è andata? Quando vai al Moulin Rouge?” lo disse rivolto a Roby che sorrise senza parlare, soffocando il desiderio di rispondergli a tono. Lo detestava, ma lo temeva.
Il vecchio buttò un paio di banconote spiegazzate sul bancone, battendo il pugno: “Carlo, porta una bottiglia, al solito tavolo, vedi che sia libero”. 

Il bourbon era finito, nel bicchiere c’era solo ghiaccio, Roby passò in sala da pranzo, fece un cenno di saluto a Pina, slacciò il papillon e prese il cappotto che aveva lo stesso odore della stanza. Scendendo le scale incrociò un paio di clienti ritardatari, parlavano di soldi sotto la luce azzurra dell’insegna.

Salì in auto, faceva freddo, nella nebbia i fari illuminavano il futuro 10 metri alla volta, il tergicristallo faticava a togliere dal parabrezza l’umidità untuosa, le spazzole indurite strisciavano sul vetro con un gemito. Arrivò a casa, lasciò l’auto lontano dal condominio, a quell’ora il parcheggio era pieno. 
Due rampe di scale lo separavano dalla vita reale, girò la chiave tentando di non fare rumore.
“Roby… sei tu?”
“Si, Elsa, scusami, continua a dormire”

Si spogliò, non aveva sonno, ripose con cura lo smoking nell’armadio, appese il cappotto sul balcone, il sole avrebbe tolto un po’ della puzza di fritto. La moka aspettava il fuoco. Sul tavolino in salotto c’era la settimana enigmistica, guardò la foto sul cruciverba di copertina, era Ligabue: “Fanculo, cos’hai tu che io non ho?”. 

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