Capitolo 5. Il camino spezzato
L’enorme camino della centrale termoelettrica giaceva spezzato in due e riverso nell’acqua placida.
Per decenni aveva svettato su tutto il Delta come un gigantesco obelisco di cemento armato, trionfale monumento all’arroganza e alla cupidigia, visibile a chilometri di distanza. Alla fine si era sfracellato come un tronco d’albero sotto i colpi del mare, delle tempeste e del tempo. La punta affondava ora nell’acqua quieta, abbandonata di traverso come un sigaro in un posacenere.
Eppure l’antica ciminiera sembrava non voler rinunciare fino in fondo a dominare il paesaggio come un tempo. Anche ora, tra le acque salmastre dell’immensa laguna sotto cui giaceva l’antica isola di Polesine Camerini, quel che restava del vetusto impianto era l’unico manufatto umano in quella piana liquida, vertiginosamente piatta e monotona, appena increspata dalla brezza.
Lì finivano anche gli ultimi canneti, il labirinto vegetale che ricopriva il Delta e custodiva insediamenti umani abbandonati. Lì dominava il mare.
Caterina si tirò su faticosamente e rimase in piedi al centro della barca a fissare il paesaggio irriconoscibile
“Venivo in spiaggia da queste parti la domenica”, disse, ma non avrebbe saputo riconoscere neppure la direzione esatta in cui si trovava quel lido ormai sprofondato sotto l’acqua salata.
Dov’era finita la trattoria che ai tempi d’oro spandeva all’esterno profumi di fritti e grigliate? E che fine aveva fatto quel piccolo cimitero con le due file ordinate di silenziosi cipressi a tracciare la strada d’ingresso?
Nel gigantesco specchio d’acqua scintillante di luce non emergeva praticamente nulla che potesse rammentarle com’erano stati quei luoghi cinquanta o sessanta anni prima. Ma sembrava quasi un destino di quelle terre, desolate già prima che il mare le riconquistasse. Perché con buona pace delle sue ambizioni turistiche, il Delta del Po non era mai stato Venezia o Ravenna. Aveva sempre avuto ben poco da esibire, se non sé stesso. E anche oggi, mentre cinici turisti subacquei fotografavano le incrostazioni di telline sui mosaici di San Marco, l’estremo lembo orientale del Polesine continuava ad essere una terra misteriosa ed effimera.
Effimeri si erano rivelati gli insediamenti umani, per secoli contesi tra mare e terra e infine consegnati all’oblio. Nessuno ricordava più Scano Boa, isola misteriosa ormai disciolta in mare. Il municipio di Ca’ Tiepolo sopravviveva nascosto tra vasti canneti. Della statale Romea non restavano che gli scheletri degli edifici ai margini, sommersi in sterminati acquitrini.
Per arrivare a ciò che rimaneva della centrale Giorgio aveva dovuto seguire i tralicci dell’alta tensione, che affondavano ancora i piedi saldamente nel fondale melmoso. Ma anche quelle torri di metallo erano ormai semidistrutte.
“Siamo arrivati”, disse lui. Non aggiunse altro. Si aspettava che Caterina si concedesse un momento di malinconica contemplazione, prima di chiedergli di tornare indietro.
Invece lei lo sorprese con un’espressione che di malinconico non aveva nulla. Sorrise, mentre apriva con gesti pacati il grosso zaino e ne svelava finalmente il contenuto misterioso.
“Cos’è quello?”, domandò l’uomo. E la voce gli tremò. Perché vide qualcosa che gli faceva paura.
Continua…

Sweet Home Rovigo
Francesco Casoni, classe 1980, rodigino prima per accidente del destino e poi per ostinazione. Giornalista pubblicista, disegnatore, conduttore radiofonico, musicista (di scarso talento), scrittore, progettista, formatore, informatico autodidatta, cuoco, papà e dilettante in molti altri campi.
E’ autore dei romanzi “Le mille verità” (2017) e “I giorni delle cicale” (2021).