Raccontare una guerra serve davvero a qualcosa? Se lo chiedeva Marie Colvin, forse lo ha fatto per tutta la vita.
Era una reporter di guerra. Dal 1985 fino alla sua morte – il 22 febbraio 2012 – ha scritto per il quotidiano britannico The Sunday Times. Era stata in Cecenia, Libia, Iraq, Afghanistan e Sri Lanka dove aveva perso l’occhio sinistro per una granata. Da allora girava con una benda nera da pirata. Ed era un pirata Marie. Un’avventuriera della parola in mezzo alle persone.
Quando le chiedono cosa vorrebbe dire a un ragazzo o una ragazza che fra trent’anni volesse fare il suo mestiere, le sembra di comporre un necrologio, ma le preme far sapere che in mezzo alle guerre ci va per raccontare le persone che nessuno vede, nella speranza che tutti le guardino con i suoi occhi. È morta a Homs, in Siria, sotto le bombe per la caparbietà di restare con i civili e parlare di loro al mondo.
Il regista americano Matthew Heineman racconta la vita di Marie Colvin nel film A Private War. Lo spunto è un articolo di Marie Brenner uscito su Vanity Fair nel 2012, Marie Colvin’s Private War. Il film è bello, nonostante si muova di continuo sul ciglio di un burrone, quello della commozione. È sempre lì che oscilla e rischia di precipitare, ma dopotutto la figura forte di Marie, l’interpretazione di Rosamund Pike e, soprattutto, la regia pulita riescono a scansare il baratro. Non che questo eviti le lacrime, ma esce un pianto ruvido, un po’ amaro, per nulla scontato.
Ci sono tre cose che rendono il racconto cinematografico avvincente e lucido. E mi sono stupita di come questi elementi si siano rivelati subito in modo limpido. Prima di tutto Heineman sceglie di girare con il gusto aspro e granuloso del reportage; ogni sequenza nei territori dove Marie si lancia a capofitto, le scene nel suo appartamento tra un viaggio e l’altro, negli hotel durante le attese e la scrittura o nella redazione del Sunday, tutto è girato come fosse il resoconto di una vita indagata sul campo.
Poi l’attrice, Rosamund Pike, incarna quella ruvidezza, indossa il temperamento della giornalista con crudezza e restituisce una donna tormentata, vigorosa, fragile, ossessionata, piena dell’urgenza di vedere e raccontare. Marie Colvin andava in mezzo ai conflitti e non stava ferma un attimo; non le importava di analizzare il clima politico, andava nelle strade, nelle case, tra le persone e i morti. E mostrandoli metteva a nudo i poteri e le strategie. Con questa naturalezza ha incontrato Arafat e si è fatta raccontare la sua vita e ha intervistato Gheddafi due volte. Ma prima di tutto c’erano gli invisibili al mondo, il loro isolamento.
Questo mi porta alla terza ragione del film. Qualcosa che mi è arrivato addosso come un treno ed è per me l’aspetto più importante. La solitudine. Fare quello che gli altri non fanno, lascia soli. Nulla di più ovvio e non è che di questo mi sia resa conto solo ora. A Private War riesce però a raccontare in modo feroce la solitudine di chi non può prescindere dal mondo, non può fare a meno di vedere e vuole che tutti guardino. È come scavare un solco fra sé e gli altri. La distanza è tra la ragionevolezza e la follia di mettere in palio se stessi. Una follia che il mondo osserva come se fosse una sorta di incoscienza. Non lo riguarda ma dopotutto gli fa comodo, perché chi va dove gli altri non vanno, diventa gli occhi di tutti. Marie era molto cosciente, al punto da stare con la penna in mano sotto le bombe, davanti ai corpi dei bambini, a donne e uomini nudi soli e invisibili.
Un’altra cosa che la Colvin avrebbe detto a un giovane fra trent’anni, è che quando fai queste cose non hai paura; quella arriva dopo, quando tutto è finito. E la paura a Marie riverberava dentro come la gibigianna, quel bagliore speciale che si crea quando la luce colpisce l’acqua e stende il suo riflesso sulla superficie delle cose, tutte le cose.
Annotazioni: A Private War è stato presentato quest’anno alla Festa del Cinema di Roma. C’è in verità un quarto elemento che decisamente spicca e contribuisce a definire la figura di Marie Colvin ed è la canzone di Annie Lennox Requiem for A Private War, scritta per il film.

Al cinema e altrove
Elena Cardillo è appassionata di cinema e parole. In effetti i suoi studi sono stati di giornalismo e immagini in movimento. Di cinema si occupa nel suo lavoro, mettendoci ogni tanto anche qualche parola scritta.
Coplimenti all’autrice. Un bell’articolo per una recensione densa, piena di sentimento, di emozionante coinvolgimento.