Pubblichiamo oggi, 14 novembre 2021, le parole di Gianfranco Scarpari.
Un lungo incrocio di pensieri fitti e lucidi che raccontano l’alluvione di settant’anni fa, nel 1951. L’evento che ha travolto uomini, bestie e cose, il Polesine intero.
Non aggiungiamo commenti o altre considerazioni. Solo la consapevolezza di maneggiare parole preziose che, nel riportarci ai fatti e ai luoghi com’erano allora, sono tassativamente attuali.
Da “La casa là”, Morganti, Treviso, 1993. Poi raccolto in “Gianfranco Scarpari, una vita narrata. Scritti e testimonianze”, Apogeo Editore, Adria, 2009.
Per giorni e giorni, al mattino e di sera, ci eravamo recati in bicicletta sull’argine del fiume per controllare il livello di piena. Da settimane ormai continuava a piovere e il cielo uniformemente grigio non lasciava speranza di cambiamento, mentre dal mare soffiava con violenza il vento di scirocco che ostacolava il deflusso verso la foce. Anziché scorrere, le acque schiumose sembravano disporsi di traverso per aggredire le sponde: un duello che la natura ingaggiava contro l’uomo che, per tanti secoli, imprigionando il corso tra le arginature, l’aveva domata e regolata. Quando una sera il riflettore puntato sul pilone di un ponte rivelò che l’altezza dell’acqua era improvvisamente diminuita qualcuno esultò, ma dopo pochi minuti era già giunta la notizia che il fiume aveva rotto alcuni chilometri più a monte e che le acque dilagavano nelle campagne. (…)
(…) ll giorno seguente trascorse attendendo ormai con rassegnazione l’arrivo dell’acqua. Non ci interessava più recarci sulle rive del fiume, che ormai scorreva tranquillo tra i suoi argini come un guerriero a riposo dopo una battaglia vittoriosa. Con alcuni amici, in bicicletta, mi inoltrai nella campagna, ad ovest dell’abitato, per tentare di individuare a distanza l’avanzare della massa d’acqua che ci avrebbe sommersi. Ma tutto sembrava tranquillo. Gli unici segnali che qualcosa di diverso stava accadendo erano dati dall’insolita presenza di folti stormi di gabbiani che volteggiavano nell’aria spostandosi lentamente verso ponente e dal latrare dei cani che si richiamavano lugubremente da un casolare all’altro.
Quando incominciò ad imbrunire girammo le biciclette e, giunti in città, ci dividemmo. Ognuno si diresse alla propria casa quasi che, col sopraggiungere della notte, l’avventura che stavamo per vivere si dovesse affrontare tra le pareti domestiche dividendo l’emozione con i nostri cari.
Al primo piano, su uno stretto tavolino, la cena fu consumata in silenzio e molto presto ci ritirammo nelle nostre stanze stipate di mobili. La piccola radio che tenevo sul comodino continuava a trasmettere notizie sulla rotta: dava per sommerso il capoluogo che in effetti non avrebbe mai visto un solo centimetro di acqua, raccontava dell’esodo della popolazione, di raccolta di aiuti in tutto il paese con Milano, come sempre, in testa nella gara di solidarietà. All’improvviso mancò la corrente e avvertii un rombo simile a quello di un aereo che si avvicinava sempre più. Poi un tonfo sordo, prodotto dalla caduta del muro che circondava il giardino sotto la spinta dell’acqua. Seguì, per qualche minuto, un cupo gorgoglìo al quale subentrò il totale silenzio. Solo allora mi decisi a scendere dal letto e ad affacciarmi sul giardino. Sull’acqua immobile si specchiava la luna e il gatto di casa, sorpreso all’esterno durante le sue peregrinazioni, mi salutò miagolando allegramente dal tetto del garage. Certamente i miei genitori avevano avvertito quanto era accaduto, ma nella casa nessuno si mosse. Solo all’alba ci ritrovammo.
Era incominciato l’assedio. Due metri d’acqua ci impedivano di uscire di casa e trascorrevamo il nostro tempo sulla terrazza. Un aereo aveva tentato di far cadere pacchi di viveri nelle poche zone rimaste all’asciutto, ma il più delle volte i lanci finivano nell’acqua. Verso sera un leggero ronzio preannunciò l’arrivo di una barchetta mossa da un motore fuoribordo. In uno spazio troppo ristretto per le loro moli, stavano accovacciati, l’uno di fronte all’altro, l’anziano arciprete e il capitano dei carabinieri. Quest’ultimo reggeva tra le mani un megafono attraverso il quale, con il suo marcato accento toscano, invitava la popolazione a lasciare la città preannunciando, per coloro che fossero rimasti, freddo, fame, epidemie. Mia madre dialogò con lui cercando di tenergli testa con delle battute di spirito, ma mi accorsi che i suoi occhi erano gonfi di lacrime. (…)
(…) Il grande esodo della popolazione era in corso. I mezzi anfibi caricavano intere famiglie che fuggivano senza una meta prestabilita. Molti non avrebbero più fatto ritorno, attratti dal triangolo industriale dove già si profilavano i primi contorni del miracolo economico. Solo qualche anziano piangeva, gli altri se ne andavano in silenzio con i volti inespressivi quasi ubbidendo ad una legge naturale contro la quale era inutile imprecare od opporsi. In tanta desolazione non mancava qualche scena felliniana. La nostra vicina di casa, insegnante di lettere in pensione, fu imbarcata, avvolta in un pastrano nero, su un “patino” bianco-azzurro recante la scritta “Viareggio” e nel salutare mia madre che assisteva alla partenza dalla finestra agitò un vecchio libro.
“Porto con me i canti di Leopardi” fu il suo flebile saluto coperto dallo sciacquio dei remi.
Su una popolazione di oltre ventimila abitanti eravamo rimasti in città solo qualche centinaio. Il problema principale era quello dell’acqua potabile, ma per il resto ci si arrangiava con scambi in natura. Queste operazioni si svolgevano nella tarda mattinata sul sagrato della cattedrale, uno dei pochi luoghi rimasti all’asciutto. Si permutava farina con fagioli, mortadella con olio, biscotti con formaggio in una gara di solidarietà e generosità reciproca, tra persone che magari prima non si erano mai conosciute. Erano completamente scomparse le differenze sociali, anche perché in quei giorni col denaro non si poteva proprio fare niente. (…)
(…) La sera della vigilia di Natale si era levato un vento freddo a raffiche e si udiva lo sciacquio dell’acqua contro i muri di casa. Ma un altro rumore vi si sovrapponeva proveniente dal piano di sotto, dal tono più cupo. Erano i tonfi che i mobili galleggianti producevano urtando sulle pareti.
Eravamo di umore discreto mentre ci passavamo i piatti della cena nei ristretti spazi liberi. Mia madre rievocava i Natali degli anni precedenti trascorsi in casa degli zii in una comitiva numerosa di anziani, giovani, bambini. Sapevo che le si stringeva il cuore riandando a tempi e vicende che l’alluvione sembrava aver irrimediabilmente allontanato nel tempo rendendoli irripetibili, ma per quelle grandi doti di ricupero che distinguevano il suo carattere non lo dava affatto a vedere.
Mio padre non parlava, ma appariva sereno. Alla fine del pranzo si alzò e cercò a lungo in un’altra stanza, quindi ricomparve recando in mano il violino. Aveva studiato musica da ragazzo e raramente rispolverava lo strumento. Non era un’abile suonatore nè aveva la pretesa di esserlo. Il suo apparire provocò una breve nervosa risata della mamma che si arrestò quando uscirono le prime note. Parevano provenire da un’immensa distanza.
“Tu scendi dalle stelle”, improvvisava, e mano a mano che la melodia si svolgeva, un po’ timida e impacciata, da spettatore di una scena irreale, quasi metafisica, diventavo partecipe di una speranza che i miei genitori parevano esprimere sommessamente. Quando mio padre posò lo strumento successe un lungo silenzio che nessuno di noi osava interrompere. Non saprei dire quanto sia durato, ma ancor oggi, quando ne avverto uno intorno a me, mi sento riportato in quegli attimi lontani.
Improvvisamente si udirono rintocchi di campane. Sembravano vicinissimi. Evidentemente l’acqua aumentava l’intensità del suono. Per la prima volta, dal giorno dell’alluvione, le campane riprendevano a suonare nella notte di Natale.
Il mattino seguente mi svegliai con uno spettacolo insolito. Alzando le imposte il mio occhio, ormai perfettamente addestrato a rintracciare sul muro di fronte le escursioni dell’acqua, si avvide della discesa del livello di quasi mezzo metro. Il fatto appariva sensazionale tenendo conto che, da oltre un mese, la quota era sempre rimasta la stessa, centimetro più centimetro meno. L’area alluvionale era entrata in comunicazione con le maree e risentiva di esse. Le grandi magre invernali avrebbero facilitato il deflusso fino ad un certo limite oltre il quale sarebbe intervenuta l’opera dell’uomo con le pompe e le idrovore.
Il cielo era grigio. Dei granellini bianchi scendevano dall’alto, ma non erano vera neve, solo un tentativo, una speranza di neve. Ma bastarono a farmi comprendere, all’alba di Natale, che le case mutilate dei pianterreni, gli alberi mozzi, i pali della luce e del telefono così irreali nello specchio alluvionale, tutto quel mondo sommerso e profanato, reclamava la propria rivincita nei confronti dell’acqua. Essa non era – come anch’io ero stato indotto a credere – la regina che tornava a riappropriarsi del suo ambiente, ma un’usurpatrice che aveva invaso i focolari, le piazze, i campi, gli spazi degli uomini.
Il mio pensiero si rivolse allora con solidarietà alla vecchia “millecento” sommersa nel garage, alla mia ragazza bionda che chissà dov’era, agli amici dispersi per l’Italia, a tre quarti della nostra casa devastata e avvertii, per la prima volta, provenire dall’acqua un odore di decomposizione e di morte. Sentii il desiderio fisico di asciutto, di sole, di polvere. Ripensai alle strade di campagna fiancheggiate da olmi e da salici, alle spiagge sul fiume quando il vento vi sollevava nuvole di cristalli di sabbia. Tutto intorno era fradicio. Dov’erano finite le brinate notturne sull’erba, il canto dei galli all’alba, i voli furtivi dei merli nei giardini, il vecchietto in bicicletta che ci portava al mattino il latte ancora fumante? E per quanto tempo avrei dovuto sopportare quegli odiosi, monotoni gabbiani con le loro sinistre grida? Ormai rivolevo il mio mondo, la sua gente, le sue leggi, le sue falsità e ipocrisie addirittura.
Di giorno in giorno il livello calava vistosamente e si rivelavano sulle strade, nelle case e nei cortili i danni che l’acqua aveva provocato. La terra era ricoperta da uno strato di limo che foderava ogni oggetto con uno spessore screpolato e biancastro.
Qualche pullman lungo la strada arginale incominciava a muoversi ed una sera, prima di capodanno, anch’io vi salii portando una valigia ed il vecchio cane reumatizzato mentre i miei mi salutavano dalla terrazza di quella casa metà bianca e metà grigia che era stata la nostra arca di Noè. Dal finestrino del pullman che sobbalzava sull’asfalto dissestato osservavo la campagna con i suoi filari di viti e di pioppi, il tutto come in una fotografia in bianco e nero languida e sfumata.
La prima immagine di vita che mi si presentò fu di un casolare che doveva essere tornato all’asciutto da poche ore. Una donna con un golfino rosso (e fu quella la prima nota di colore che dopo tanto tempo colpì i miei occhi) stava spalancando le imposte al primo piano mentre un uomo, dalla porta del piano terra, gettava sull’aia pezzi di poveri mobili che si disfacevano all’urto sul selciato.
Sul tetto due gazze chiacchieravano animatamente tra loro e dal camino, un fumo bianco saliva a tratti nell’aria umida ferma del tramonto.
Gianfranco Scarpari

Letture, visioni, ascolti ed emozioni in giro per il Polesine… e oltre.
Un racconto ‘cinematografico’, commovente e poetico a un tempo. L’autore ha una penna lieve nel descrivere il dramma. E noi, leggendo, ci sentiamo ‘dentro’.