Un’altra parola che ci accompagna è «dopo». Il dopo. Dopo saremo migliori. Saremo più buoni. Dopo ci ricorderemo. Costruiremo un mondo diverso. Saremo più attenti agli altri. Un dopo di promesse. Di propositi. Di miglioramenti. Di maturità. Parsimonia, sobrietà, pacatezza. L’insistenza sul dopo è il segno che c’è un tempo normale e un tempo straordinario. Ci sarà un prima e un dopo. Anche se adesso siamo ancora nel durante. E non sappiamo quanto durerà. Parlare del dopo può essere d’aiuto se non è il riflesso dell’abitudine di avere tutto subito. Della pretesa del qui e ora. Farsi prendere troppo dal dopo potrebbe essere un errore perché non sappiamo quanto durerà il durante. Potrebbe essere lungo. Sarebbe un errore fissare delle date, stabilire delle scadenze. Se non è ansia, proiettarsi nel dopo può essere un esercizio di consolazione e di speranza. È giusto farlo. Chi è più avanti negli anni lo fa con più tremore e meno frenesia, forse. Ma l’esercizio della speranza è utile per tutti. Un importante psichiatra ha detto che «la speranza è come la stella del mattino. Può essere una medicina perché fa sgorgare risorse addormentate».

MISANTROPIE. Cercando l’antivirus. Maurizio Caverzan è giornalista professionista. Attualmente collabora con La Verità e Panorama e tiene il blog CaveVisioni.it Ha pubblicato nel 2020 con Apogeo Editore “Misantropie” e “Fabula veneta. Incontri con scrittori, editori, poeti”.
E’ vero, già si vede da questi giorni. Levata un po’ di tara volontaristica e sentimentale, si vede un grande paese all’opera. Il coronavirus resta una tragedia a prescindere, ma se questi schiaffoni servissero a risvegliarci un po’, non li avremmo presi per nulla.
Io penso che il dopo sarà nuovo, cambiato, quanto più accettiamo adesso di fare i conti con il durante. Quanto meno cerchiamo vie di fuga, non nel senso banale del termine. Distrazione e alleggerimento sono indispensabili, non si può stare sempre a macerarsi. Ma il dopo sarà migliore se sapremo approfittare di questa tragedia, provando ad andare al fondo di noi, del nostro bisogno fondamentale. E, di conseguenza, dei modelli di sviluppo di questa società, di quali siano i pilastri sui quali l’abbiamo fondata. E se siano davvero rispettosi dell’umano. Di ciò che più conta…
Senz’altro.
Quanti “dopo” abbiamo sprecato nel tempo? Quante volte è stato detto “non sarà più così” e poi lo è stato ugualmente, se non peggio? Sono esercizi di speranza. Il più delle volte vana.
Grazie per il suo realismo, Mario. Che condivido. Non abbiamo garanzie che il dopo sarà migliore. Anzi, c’è qualche possibilità che sia peggiore. Per esempio, se ci si farà prendere dall’istinto di «recuperare». Com’è facile che accada, magari tra i giovani. Per questo, ho voluto segnalare un modo un tantino frou frou di parlarne. E di farlo un po’ precocemente. Una tendenza che, posso sbagliare, tradisce l’abitudine ad avere tutto subito. Abbiamo molto da lavorare, credo. Su noi stessi… Se lo faremo, forse potremo provare a sconfiggere il pessimismo che a volte ci prende.