Il poeta padovano Rino Pradella
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Rino Pradella … tiratore d'alzaia, mio compagno

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Rino Pradella  … tiratore d'alzaia, mio compagno

Rino Pradella

… tiratore d'alzaia, mio compagno

 

Abbiamo una bandiera

per carpire la fiamma

dal cuore degli uomini [...]

Andiamo avanti compagni

contro le barriere del sangue,

l'odio, lo sfruttamento e il terrore [...]

Un mare di uomini

per colmare ogni abisso

tra gli uomini.

 

Quale ricchezza si può trovare in un libro comprato una domenica a due euro, nuovo di zecca, al mercatino d'antiquariato di Piazzola sul Brenta? Per me, che amo la poesia da sempre, una ricchezza immensa l'aver scovato per caso in una bancherella Poesie scelte. 1938-1980 di Rino Pradella, a cura di Maria Giovanna Maioli Loperfido¹, con una nota di Andrea Zanzotto e 5 disegni di Tono Zancanaro, pubblicato da Longo, editore in Ravenna, nel 1982.

 

Poeta padovano, aveva rivelato fin dalla prima giovinezza interesse per gli studi umanistici ed in particolare per la poesia. Si formò in un clima di interessi vivi e molteplici, frequentando e stringendo amicizia con pittori, poeti, umanisti della sua città: Tono Zancanaro - Da questi volti / impregnati di gaiezza / tu spremi l'estro / d'una tua lusinga / e ci riporti / da un ozio variopinto / il lineamento d'una gioia antica. / Ma là dove l'unghia / d'un'epoca crudele / strazia il volto dell'uomo, / tu incidi il segno / il nostro ardito / messaggio di speranza - Giorgio Rubinato, Ettore Luccini, Leone Traverso ed altri.

 

Come ebbe a scrivere nel 1972, per chiarire la sua posizione nei confronti della poesia, «Inizialmente attratto dall'ideale rinascimentale, approfondii la mia preparazione pure nel campo tecnico… per non perdere di vista l'opportunità di “prendere la tecnica per le corna” onde indurla a dimensioni umane… Penso che la meta della cultura del nostro tempo sia la fornitura d'un nuovo umanesimo e che in questa formazione, la poesia, operante nel livello degli essenziali, possa costruire un efficace strumento d'illuminazione dialettica.»

 

Sul ponte della ferrovia

 

Non senti la mano che tocca

il muro grigio d'un ponte

se le pupille tu arrechi

nei luoghi della mente

ove vanno quei treni che ascolti.

Ma bianchi fumi ti portano

figure stravaganti

e tu guardi pavido

farsi gigantesche

le grandi ombre sui muri.

 

*

Non curare il vento che soffia

strappa le nuvole

spoglia le stagioni

corri dov'è la creta

alle tue figure di fango

chissà che un tuo soffio

più attento non dia vita

a qualche creatura dei tuoi sogni.

 

*

Ho inquieti i sensi miei, disabitato,

il cuore in ansia e tumultuosi giorni

m'han sradicato dalla mente i sogni.

Non so più dare un senso al bene e al male

perché ogni gioia è spenta nel mio cuore.

Ho perso il destro degli avvenimenti

e l'urto cieco d'indiscrete cose

già mi soverchia come una fiumana

e quasi nicchio vuoto mi travolge.

Perché del nostro immaginare il mondo

tanto è diverso e sempre più è conteso

l'affermarsi di arditi desideri?

Giorni strani ci attendono

e disperati eventi.

O sorte umana o vorticosa giostra.

 

*

Evaso dal frastuono della fabbrica

inseguito dai colpi dei martelli

ti vedo scivolare nelle tenebre

come un'ombra o crisalide di ombra.

Fuggi da un mondo che non ha mistero

senza fragranza e quasi senza azzardo.

Nella notte assoluta senza stelle

anche un'insegna luminosa brilla

come lo stigma della tua salvezza

e scovi l'oppio della tua rinuncia,

simulacri dorati degli schemi.

E già smarrito in questo vuoto algebrico

affondi a poco a poco nelle tenebre

il mondo vero della tua speranza.

 

*

Ormai che il passo incalzante di Cronos

e quello di Tanatos

spesso si confonde

e Atropo minacciosa s'avvicina,

le ingombranti vanità 

come brandelli d'un vestito lacero

cadono via

e ci succede più spese di guardare

al lucido specchio della memoria

ove da tempo ormai si configura

tutta l'essenza della nostra vita

e ciò che preme al giudizio degli dèi;

se siamo stati veramente liberi

lottando in piedi contro gli oppressori.

 

Ricordo di P. P. Pasolini

 

Non l'agguato di torbide passioni

nell'addentare un frutto di violenza

ti ricacciò sotto il feroce maglio,

nell'ira giovanile alle tue voglie

si scatenò

a riparo d'un oltraggio,

ma l'esca astuta

d'un minuzioso imbroglio,

ordigno d'odio e trappola mortale,

scattò ad umiliare

un grido di rivolta

a bollare col marchio dell'infamia

la tua scomoda voce

nel cori degli oppressi.

 

*

Non è stata forse saggezza

illuminare

con l'implacabile lume della mente

il mistero dell'essere

il tormento dell'uomo

nel suo tragico e inutile operare

che ormai aggrappati

nel ramo spoglio della necessità

all'artificio del caso ci affidiamo

pur senza disdegnare l'esperienza

nel nostro inquieto forsennato andare.

Coinvolti in un comune malessere

disdegnando ogni supporto divino

privati d'ogni fine celeste

senza boria né umiltà

consapevoli d'un avvenire

senza eternità

proseguiamo con coraggio e serenità

per il nostro cammino

non ancora convinti di dover distruggere

il messaggio di vita che ci è stato affidato

ma sicuri che non siamo chiamati

da nessun essere supremo

a compiere alcun prodigio di gloria

pur premurosi dell'umana salvezza

e disposti a lottare contro le mostruosità.

 

*

Ora l'angoscia batte allo schermo

che nega ogni orizzonte.

Nell'aria spessa come un muro grigio

s'avventano irrequiete e si disfanno

in un delirio che non ha riposo

le fasmate di fumo, mai concluse.

S'accende una finestra:

una donna si spoglia, si denuda.

Una speranza? Un ramo che t'impiglia

nel vuoto dell'insoddisfazione?

No, e pur sorprende quell'ambigua offerta,

anonima lontana inaccessibile

e nell'inverno della solitudine

si fa tepore invito umanità.

 

*

Distrutti i miti, il mondo si frantuma

ed il mistero della vita langue

disperso nei frammenti della cronaca.

Di tanto in tanto il volto di una donna

ti dà il sapore d'un avvenimento.

Fine o inizio d'un'altra solitudine?

Già mescoli il cuore al gelsomino

l'odore del catrame, della nafta,

il soffio d'aria esausto dello scoppio

che ti avvelena e questo ti sgomenta.

S'avvinghia il male al bene e pur discorde

s'imprime nei tuoi sensi, t'imprigiona.

A poco a poco in cuore si sfigurato

i lineamenti d'una gioia antica.

 

In Rino Pradella possono incontrarsi due spinte culturali: la tensione verso l'interesse collettivo e la militanza politica da un lato, dall'altro il valorizzare l'individuo e ricercare i momenti di maggior spessore nella vita.

Nella nota alla raccolta Poesie scelte, Andrea Zanzotto giustamente sintetizza queste due tendenze con due concetti, che sembrano in apparenza essere antitetici, parlando di «bipolarità tra profondità orfica e apertura sul fatto sociale.» A significare che Pradella può essere considerato un poeta neorealista? No, al contrario. Egli raggiunge i risultati più felici nel momento in cui la spinta “civile” e quella “privata” non vanno di pari passo, ma la consuetudine poetica riesce a ritagliarsi comunque uno spazio autonomo, al fine di costruire una poesia di totale resistenza al cospetto del mondo esterno e della sua storia.

 

La poesia di Pradella si sottrae allora ad ogni forma abusata di attualità per mantenersi in una assoluta e totale fedeltà nei confronti di sé stesso e delle sue forme. Un poeta lontano dal vivere, o a anche solo dall'essere sfiorato, dal mito postmoderno della creatività; più semplicemente, e con maggior fatica, trova gli spazi del suo fare poesia ritagliandoli all'interno di un progetto cultural-politico più esteso, dove l'istanza individuale acquista coerenza e valore se misurata con quella sociale.

 

Forse per questo non è - e non poteva essere altrimenti - un professionista della letteratura; eppure è riuscito a riempire il “luoghi” della poesia che gli si aprivano dinanzi con una raffinata, appassionata e mai asettica varietà di registri e di moduli recuperati in una chiave originale e fortemente consolidata per un poeta rimasto volontariamente, e volutamente, in disparte, lontano dal chiasso e dall'effimero di un scintillante palcoscenico letterario della sua epoca. E non poteva, ancora una volta, agire in maniera diversa.

 

«La cara figura di Rino Pradella - scrive Zanzotto in apertura di Poesie scelte - ha lasciato scomparendo un profondo rimpianto per le sue doti di ricca umanità, per quel suo vario e vivo discorso poetico troncato ormai nel silenzio. [...] L'espressione di Pradella ha infatti quell'immediatezza e quella tensione umana che possono derivare soltanto da una sensibilità profonda e da una capacità autentica di misurarsi con la realtà, con i suoi enigmi, le sue oscurità, i suoi splendori.

Si può dire dunque “realistica” nel senso più lato la poesia di Pradella nelle sue motivazioni e nei suoi atteggiamenti, essa è sempre ancorata ad una verità del vissuto dalla quale non è possibile distogliersi verso l'artificio o la vacua e fredda fantasticheria, ma è pur nutrita di tutto ciò che ferve nell'uomo, anche di sogni e di “fantasmi”. E può “osare questi fantasmi” e sogni, ben consapevole del fatto che in essi viene sovente a manifestarsi nel modo più impellente l'aspirazione al superamento di ogni bruta coazione, e infine un'intimazione etica.»

 

Già da giovane, prendendo coscienza del mondo, a volte chiuso nell'orrore della tirannide, Rino coltivava l'idea che la poesia fosse allo stesso tempo una alternativa e un presagio. L'orfismo (nella lirica del Novecento, il valore magico, evocativo ed allusivo, della parola) che egli confessa, senza mai rinnegarlo del tutto, era pur sempre l’attestarsi

«di un orizzonte che si apriva oltre quell’incubo e ne indicava in qualche modo i limiti”», scrive sempre Zanzotto.

 

Erano i tempi in cui, a Padova, Pradella si vedeva con altri giovani (Zancanaro, Luccini, Rubinato…): cercavano una nuova ricognizione nell'ambito politico, che coniugava fervore di ricerca e dirittura morale, raccolti attorno alla figura di Eugenio Curiel, ebreo triestino: Tu sei oltre le palpebre / un al di là / di lotta e di parole / di segni mai defunti / dei tuoi scarni oggetti / che allineo ad uno a uno / come visi amici / ed un rosso vessillo / ove risplendono / le tue rose mai in cenere.

 

L'arte della poesia offriva una instancabilità di ricerca, non verso certi paradisi verbali, ma verso una voce che non fosse contaminata dallo squallore, dall'enfasi vuota del linguaggio ufficiale.

 

Non è un caso, sottolinea Zanzotto, «se tanti giovani di quel tempo prima presi nella macchina militare, poi entrati nella Resistenza, si portarono nello zaino quel libro (“Sonetti a Orfeo” di Rilke, nella traduzione di Giaime Pintor) e i libri dei nostri poeti che operavano partendo da premesse analoghe, radicalizzandole, inverandole in modi sorprendenti.»

 

La poesia può essere salvatrice di zone segrete ed intime, inaccessibili a qualunque dominio che ha a che fare con la brutalità.

C'è l'Io e ci sono gli Altri. Cioè quella Comunità/Comunione che il popolo ha sempre sentito dentro di sé, almeno fino ad epoche non tanto lontane nel tempo.

 

C'è un dire poetico che non si banalizza né si appiattisce, con metafore acute (ma anche delicate) che ci richiamano alla memoria Paul Eluard, Ungaretti e Quasimodo.

Per Pradella c'è sempre, pungente, una “presenza del mondo” in tutte le sue peculiarità, intrisa di quella affettività «che risponde - sempre le parole di Zanzotto - con propri segni a quella della società umana e dell'io scrivente: il quale forse, dopo aver assolto il suo compito verso tutti, anche con attività che possono essere ben lontane dalla poesia, chiede una rinnovata possibilità finale di restituirsi a un incanto o a un travaglio che può anche sembrare privato, ma che non può davvero esserlo del tutto.»

 

Valga per tutto la figura, straordinaria, del “tiratore d'alzaia”, certo pervasa dalla fatica, che ci porta ad un paesaggio d'infanzia colmo di fascino, con un risvolto misterioso ed infero. Un Orfeo, col suo ostinato attraversare il mondo dello Stige, ma con la volontà di uscirne, insieme a tutto quello che si ama.

 

*

Dove s'incurva il fiume e la sua riva

si fa ansa silvestre

ritrovo il tempo ch'ebbi nell'infanzia

con quanto di perenne si rinnova,

le bacche rosse, i giochi scalmanati

dei bimbi, l'eco delle acute grida

e assaporo il silenzio degli alberi,

lo sciabordio dell'acqua sulla riva.

La massa scura d'un barcone avanza,

lo sguardo scorre a un'affannosa corda

e d'improvviso, ossuto e allampanato,

folgorando ogni intima lusinga,

mi ricompari, assurdo e irreale,

tiratore d'alzaia, mio compagno.

 

*

Figura rassegnata, inattuale,

il carico legato ad una corda,

tiratore d'alzaia ricompari

insieme a ciò che il tempo mi rinnova

e nella gioia d'un ritrovamento

riaccendi il volto di una stessa lotta.

“Gli alberi son cresciuti e nuove case

ma i bimbi sono scalzi e sulla riva

tutto è immutato, il carico, la corda.

Niente è cambiato, neanche i finimenti.

Non ebbi tempo di strapparmi il basto!”

Già dal cuore mi sale un'ira sorda

e nella sferza della tua sentenza

mi rinasce un impulso di rivolta.

 

Bella e appassionata la testimonianza - Rino, nel mio ricordo - di M. Giovanna Maioli Loperfido, curatrice dell'antologia:

 

Rino era un giovane ingegnere, sulla trentina, dallo sguardo carico di un “grumo di sogni” - quello sguardo lo accompagnerà sempre - che aveva partecipato alla Resistenza, ai cui ideali sarebbe stato ancorato. Dirigeva “Il lavoratore”, un quotidiano sul quale scrivevano giovani speranzosi; e componeva poesie, ma sottovoce, per quel che ne sapevo. Nel ‘48 io cambiai città e così lui, e ci perdemmo, quasi [...] Ci ritrovammo, freschi d'affetto, come se ci fossimo appena lasciati, negli anni settanta a Roma, dove aveva preso dimora stabile, fu allora che avvenne il mio approccio con la sua poesia. Alcuni suoi testi entrarono a far parte della scaletta di un mio spettacolo che girò un po’ per tutt'Italia, e nel quale dicevo e cantavo versi d'amore e di lotta. Un ricordo ho soprattutto vivo: quando dicevo la sua “Ninnananna a un bimbo del Vietnam”, a volte venivo richiesta di bissarla, il che, con la poesia, non mi era mai capitato prima di allora [....] Uomo di profonda cultura, umanista finissimo [...] L'ultima volta che lo incontrai  fu nel ‘79 a Ravenna, al Mercatino della Poesia. Ricordo quando lo vidi sbucare dai portici di San Francesco e attraversare a passo lesto la piazza per venire verso di me, il busto eretto, l'ampia fronte altera, gli occhiali da sole sul capo, e sempre quel “grumo di sogni” nello sguardo. Pranzammo insieme, era sereno, pieno di progetti. Non l'avrei più rivisto. Una sera di giugno dell'anno successivo Marì mi chiamò al telefono e mi comunicò che Rino era morto. Ricordo che riagganciai, quasi senza parlare.

 

Ecco, allora amici Lettori, attraverso questa rubrica, il mio invito a conoscere questo poeta, la cui opera è libera, moralmente e letterariamente notevole ed elevata.

Una passione a viso aperto:

 

Stanco del faticoso carpire

tra le unghie dei mostri

un attimo di vita,

a viso aperto

nel cuore di quest'ira

ho piantato i miei germogli,

a viso aperto, sfidando col mio canto

questo grido di morte che spaura.

 

Notizia

 

Rino Pradella nasce a Padova nel 1917, dove si forma affiancando, fin dall'età giovanile, spiccati interessi in campo umanistico agli studi tecnici, di Ingegneria. Antifascista, si forma politicamente anche grazie agli incontri con Concetto Marchesi, Eugenio Curiel, Furio Da Re e Francesco Loperfido.

Nel dopoguerra si trasferisce a Milano (1949-1967), poi a Roma. Le sue opere:

Diario orfico, raccolta di poesie su temi, incontri e personaggi della vita quotidiana (1938-1980); Come anelli di una stessa catena (1941-1955), raccolta di poesie della Resistenza e della lotta politica; Il generale Atropo, 1° Premio di Poesia al Festival Mondiale della Gioventù a Varsavia (1955)*; Una tragedia in miniera, tentativo di portare in teatro e in versi i temi di una tragedia operaia (1956-59); Y. A. Gagarin - Pioniere d'infinito, poemetto (1961); Il cielo alterato, raccolta di liriche (1961-1962), Il buio, romanzo sulla Resistenza, ambientato nel Veneto (1965); La fontana di Peirene, liriche dedicate alla Grecia (1971); Tiratore d'alzaia (1961-62), raccolta di poesie [pubblicate in seguito con una nota di Andrea Zanzotto e disegni di Tono Zancanaro (Longo editore, 1972)]; Il Concilio dei potenti, paramnesia del vero, opera teatrale in prosa e in versi (1974-77); La condizione umana, poemetto (1978).

Muore a Roma il 3 giugno 91980.

 

Note

 

¹ Padovana di origine, ma ravennate di adozione dopo il suo matrimonio con Nino Maioli (direttore d’orchestra, pianista e compositore), Maria Giovanna Maioli Loperfido ebbe una significativa carriera concertistica come cantante di musica da camera, spesso in duo con il marito. Poi si era specializzata in recital poetici e nel 1979 aveva fondato a Ravenna il Mercatino della Poesia (poi Ravenna Poesia, dal 2004).

Al Mercatino furono presenti per alcuni anni i più bei nomi della poesia italiana, da Amelia Rosselli ad Andrea Zanzotto, e a Ravenna fece un’incursione anche Gregory Corso. Fu in particolare lettrice di Montale e Zanzotto, ai quali era legata da forte affetto. Il 12 maggio del 1970 la Casa di Stella dell’Assassino di via del Cammello a Ferrara organizza un incontro dedicato ad Eugenio Montale, presente alla manifestazione. Lei, applauditissima, presta la voce ai versi del futuro premio Nobel. Montale ne subisce il fascino e a ricordo di quell’evento scriverà: "Giovanna Maioli sa cogliere come nessun altro l’intimo respiro di ogni composizione poetica. Fedele al testo sa darne una autentica ricreazione. È stata per me una grande sorpresa".

Dal 2002 aveva iniziato a realizzare audiobooks dedicati alla poesia. Ha collaborato a molti reading ed eventi poetici insieme a Franco Costantini e spesso anche con Francesca Serra riportando all’attenzione del pubblico autori dell’800 come D’Annunzio e Leopardi, Dino Campana e Emily Dickinson.

In un momento più mistico della sua vita, nella basilica di san Francesco a Ravenna, in occasione del Venerdì Santo, dà voce al Cristo interpretando La Passione di Mario Luzi. Muore a Ravenna nel 2021.

 

*Nota a margine

 

Sappiamo cosa succede nella Russia di Putin, con tanti giovani mandati a morire in guerra. Ciò che segue sembra uno scherzo del destino. A Sochi, dal 1 al 7 marzo 2024, si svolgerà il “Festival Mondiale della Gioventù”. L’evento è stato ratificato con il Decreto n. 249, firmato dal Presidente della Federazione Russa, Vladimir Putin, il 5 aprile 2023.

Non è la prima volta, nella storia recente della Russia, che il Paese diventa un centro mondiale per unire i giovani che cercano di sviluppare relazioni veramente amichevoli basate sull’uguaglianza, il rispetto reciproco e la responsabilità per il nostro futuro comune. Vale la pena notare che la data di apertura del Festival coincide con il 10° anniversario della fine dei Giochi olimpici invernali di Sochi del 2014 e il Parco olimpico sarà la sede principale.

Il Festival si propone di unire i giovani più proiettati verso un nuovo percorso del pianeta e preoccupati per il nostro futuro comune. Questo obiettivo sarà raggiunto attraverso una serie di attività scientifiche ed educative, insieme a discussioni aperte. Queste ultime permetteranno ai partecipanti di affrontare le questioni chiave dello sviluppo giovanile pertinenti alla transizione verso un ordine mondiale più giusto, democratico e multipolare.

 

Il Festival è organizzato dalla Federazione Mondiale della Gioventù Democratica (FMGD, in inglese World Federation of Democratic Youth, WFDY, fondata a Londra nel 1945 (oggi la sede è in Ungheria). Il primo incontro fu a Praga nel 1948. Nel 1950 fu eletto presidente della FMGD il giovane comunista Enrico Berlinguer.