Cosmologia portatile
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Cosmologia portatile

Attraverso i suoi esponenti, che spesso più che politici sembrano influencer di terz’ordine, il governo Meloni in più di un’occasione ha dimostrato una sorta di rancore nei confronti degli ambienti della cultura e di molti i dei suoi esponenti. È un atteggiamento nuovo, almeno nella sua ufficialità, venato da un disprezzo che sconfina nel desiderio di vendetta, qualcosa che nemmeno i governi monocolore democristiani della prima repubblica, che pure avevano spesso posizioni conflittuali con il mondo dell’arte e della cultura e che utilizzavano la censura come una clava, hanno mai palesato.

Con una singolare, quanto grottesca, inversione di ciò che accade nella realtà, il mantra di questo governo è “vogliamo liberare la cultura e l’informazione dalla dittatura della sinistra”. Quasi ci fosse un complotto di una non meglio identificata intellighenzia bolscevica, teso a precludere qualsiasi accesso alle stanze dei bottoni culturali a chi non sa recitare a memoria il libretto rosso di Mao Ze Dong. Anche i meno dotati intellettualmente si rendono conto dell’assurdità di questa superstizione: le TV private sono espressione del capitalismo Fininvest e la RAI di fatto è lottizzata dai partiti principali secondo lo schema previsto dalla riforma del 1975, che assegnava alla sinistra il solo Canale 3, ironicamente definito “Tele Kabul” quando a dirigerlo era Curzi. Il presunto strapotere culturale dei nipoti di Lenin è stato ed è rappresentato da un canale su sei, che da un punto di vista degli ascolti e degli introiti pubblicitari, vale una quota percentuale addirittura inferiore a quel 17% circa che ci si dovrebbe aspettare dai dati strettamente numerici. Le cose non sono certo differenti se analizziamo la realtà dell’editoria, tanto per quanto riguarda giornali e riviste, quanto per i “libri” in senso stretto: pochi gruppi industriali e finanziari (che non sono certo cooperative nate dal Leoncavallo) si distribuiscono la torta e alla sinistra in senso lato restano le briciole. Le recenti epurazioni all’interno della Rai e l’allontanamento più o meno incoraggiato dei personaggi che il governo giudica scomodi, hanno ulteriormente inasprito la situazione e la voce della sinistra è affidata a pochi irriducibili intellettuali che se riescono a farsi ascoltare lo debbono quasi esclusivamente al valore di quello che esprimono e al confronto con i “colleghi” che esprimono opinioni di segno opposto. Ma allora, vien da chiedersi, da cosa derivano questo astio e il malcelato senso di inferiorità culturale di molti esponenti di punta del governo? Matteo Salvini, noto maître à penser della lega e fine intellettuale, ha espresso nella frase “la pacchia è finita” un sentimento ahimè diffuso, una sorta di credo da bar dello sport che descrive l’atteggiamento psicologico che sta alla base di questo “maccartismo de noantri” e che le destre amano incoraggiare sin da quando saltare nel cerchio di fuoco, come insegnava Farinacci, era ben più importante che leggere certi libri da disfattisti. Secondo questa infantile e grottesca interpretazione della realtà, chi si occupa di diritti umani, chiunque si ponga qualche domanda sul futuro che ci riserva il neocapitalismo e chi vorrebbe maggiore attenzione e rispetto nei confronti della cultura, dovrebbe rinunciare alle proprie convinzioni e adeguarsi al nuovo corso della nazione. Spero che qualcuno fermi questa deriva tragicomica e non si arrivi a ricostruire il Minculpop e a escludere Lipari dal turismo per rifarne la sede del confino per i neocomunisti. Gli intellettuali sono critici nei confronti del potere: lo sono dai tempi di Socrate e lo sono perché il loro ruolo include la denuncia delle storture e degli abusi del potere. Anticipo una precisazione doverosa per evitare il “frullatore” (come ha spiegato Augias) e/o subire la levata di scudi dei diversamente intelligenti che mi avviserebbero “che Stalin ha ammazzato più oppositori di Hitler”: sotto questo profilo non c’è differenza tra Matteotti e Solgenitsin, hanno svolto entrambi il loro ruolo di intellettuali dissidenti anche a costo della vita o di terribili repressioni.

Se tentiamo di scavare per scoprire le radici della miopia culturale che spinge le destre a questa reazione allergica al pensiero critico, di questo atteggiamento tutto teso a difendere la Bastiglia sempre e comunque, troviamo una risposta tutto sommato semplice, che spiega molte cose.

L’uomo ha da sempre un rapporto complesso con il futuro, esso rappresenta un’incognita potente e terribile che egli vorrebbe in qualche modo controllare. La religione è uno degli strumenti principali di cui le società umane si sono dotate per esorcizzare le difficoltà del presente e l’incertezza del divenire: essa permette di ipotizzare un futuro certo, trascendente, eterno, accessibile a condizioni note e prestabilite che vengono definite dalle classi dominanti a proprio uso e consumo. Basta usare un po’ di logica (poca davvero!) per capire come il nome stesso del partito che ha governato il nostro paese per decenni sia un ossimoro: il concetto di democrazia è assolutamente incompatibile con l’inossidabile e immutabile struttura liberticida della religione cristiana. I fedeli debbono obbedire ciecamente ad una divinità insondabile con cui non possono dialogare (se non attraverso l’ipotesi elitaria dell’estasi mistica), non possono esprimere alcun potere, non scelgono i rappresentanti del clero, non hanno diritto di decidere quali stesure dei vangeli siano degne di fede a quali invece apocrife, assistono passivamente alle beatificazioni e alle santificazioni decise da un manipolo di ristretto di teocrati e per garantire la vita eterna dei neonati li devono sottoporre coercitivamente a un rito che per gli interessati è del tutto incomprensibile come il battesimo.

È solo un esempio, ma indica chiaramente che all’interno delle società umane, ci sono gruppi di persone che avversano con tutte le loro forze qualsiasi tentativo di valutare in modo critico la struttura sociale esistente e i presupposti culturali che la sostengono, perché questo processo finirebbe per metterla in discussione. Sono ciecamente convinti che il mondo in cui vivono sia il campione di platino/iridio della società umana, che quella capitalista sia la migliore possibile e che quindi non vada discussa e meno che mai cambiata. “È sempre stato così, è giusto così”: queste frasi su cui poggia la loro cosmologia tolemaica sono a ben vedere la negazione del progresso, di qualsiasi progresso. Se quello che pensano avesse un senso, saremmo ancora nelle caverne a tentare faticosamente di accendere un fuoco o sottoposti alla tirannia di monarchi a diritto divino. A meno di non pensare, e in questo caso la posizione rasenterebbe il comico, che lo sviluppo ed il progresso abbiano completato il loro corso e che la società attuale sia perfetta. Fosse vero a guardarsi intorno ci sarebbe veramente da rabbrividire. A onor del vero, ci sono anche intellettuali e artisti vicini alle destre, ma vengono poco considerati anche dalle stesse forze politiche in cui si riconoscono e finiscono per venire utilizzati saltuariamente, come le statue dei santi da portare in processione, come fossero una sorta di alibi. Credo che il motivo profondo dell’avversione delle destre per gli artisti e gli intellettuali sia una specie di horror vacui, di impotenza rispetto al nuovo, che accomuna tutti coloro che si sentono più tranquilli in una società che non muta, soprattutto nei rapporti di potere e nelle finalità ultime del contratto sociale che presuppongono. Perché rinunciare ai vantaggi di una cittadinanza intesa come un blasone da opporre a chi vorrebbe entrare in un paese concretizzando anche oggi un fenomeno millenario e palesemente inarrestabile? Perché accettare la parità tra i sessi, quando il maschilismo consente di esercitare sulla partner un potere meschino e sovente vissuto come una vendetta dei torti subiti altrove? Perché accettare una redistribuzione della ricchezza, che avvantaggerebbe la stragrande maggioranza della popolazione (conservatori inclusi!), quando invece si può sempre ossequiare il Briatore di turno e godere del fatto che c’è comunque qualcuno di meno fortunato di noi? Artisti e intellettuali, nella maggior parte dei casi, esprimono la tensione di chi desidera una società migliore. Si tratta di visioni personali e dissimili tra loro, ipotesi senza la garanzia di successo e generalmente di realizzazione difficile e controversa, ma proprio questo è l’atteggiamento alla base del progresso, della conoscenza. È l’atteggiamento di Odisseo, che rischia la vita per l’ignoto o di Galileo, il genio visionario costretto a scendere a patti con l’oscurantismo del Vaticano. Per fortuna le idee sopravvivono all’ignoranza e persino ai Gulag e ai manganelli, con buona pace del Governo Meloni.