Eugenio Tomiolo. Un nervo dell'Amore
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- Notizia pubblicata il 21 maggio 2023
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- Scritto da Simone Martinello | Filò sull'aia della poesia. I poeti veneti
Credo che, nella vita, abbiamo tutti avuto il desiderio di conoscere una certa persona, ma non ci siamo riusciti perché è venuta a mancare prima, lasciandoci - e non si sa come possa succedere questo - un senso di smarrimento e di vuoto incomprensibile.
Per me è accaduto, ho avuto modo di dirlo molte volte, con Eugenio Tomiolo (1911-2003), "maestro in ombra della pittura del Novecento", come ha avuto modo di scrivere Franco Brevini o, come diceva lui stesso, "pittore famoso ma sconosciuto".
Tomiolo ha avuto una vita avventurosa, fin da quando con il padre, direttore del macello di Venezia, perseguitato dai fascisti, scappò in barca lungo l'Adige - fiume che ritornerà spesso nella sua pittura - per rifugiarsi dalla famiglia a Castagnaro. Durante la guerra, per le sue abilità manuali, fu inquadrato come cartografo. Ritornato in Italia fu fatto prigioniero e messo in un carro merci piombato, destinazione i lager in Germania. Ma, proprio grazie alla abilità delle mani, riuscì a fare un buco nel vagone e a scappare in montagna per fare il partigiano. Si fece crescere una lunga barba che serviva, secondo il suo pensiero, a "ridere degli uomini stupidi senza essere visto".
Visse poi la sua prima stagione artistica a Roma con Scipione e Mafai. Leggendaria, come ho già ricordato, la vicenda legata alla sua morosa, poi sua moglie, che fece venire a Roma contro il parere dei suoi genitori: alla fine di un scorrazzamento per tutta la Capitale, alla domanda "Dove andiamo a dormire?" si sentì rispondere: "Non ho un soldo, andremo sulle panchine del Pincio."
Si trasferì poi a Milano dove visse tutta la sua storia di pittore e, successivamente, di poeta - "il più grande dopo Noventa", ha scritto sempre Brevini - nei primi tempi, come mi ha raccontato il suo grande amico Franco Loi, tirando giù dal soffitto il letto per dormire.
Ma a lui non sono mai interessati i soldi, a Tomiolo premeva soprattutto dipingere, "usare" le mani, memore della lezione dei fabbri veneziani chs aveva frequentato fin da ragazzino.
Dicevo della vita avventurosa. Mi ha raccontato il nipote Lucio Spedo che a Castagnaro, nella soffitta di casa, si costruì una barca per constatare in seguito che per portarla fuori doveva abbattere una parete. Costruì poi sulla riviera ligure una sorta di veliero ma non aveva soldi per fargli solcare il mare sicché quando passarono di lì due ragazzi innamorati glielo vendette. Chissà poi se le vele di quel veliero siano state riempite dal vento della poesia. Io credo di sì, pensando a chi lo aveva realizzato. La passione per le imbarcazioni fu una sua costante. Ho avuto modo di vedere nella sua casa di Rovigo, dove visse i suoi ultimi anni, diversi modellini, uno più bello dell'altro, dei quali si potrebbe fare benissimo una mostra.
Sono nato il 18-12-1911 a Venezia nel Sestiere di Cannaregio e precisamente a S. Giobbe, dentro il Macello Comunale dove mio padre, veterinario, aveva funzioni direttive. Non nego che questo luogo della mia nascita possa aver avuto una sotterranea influenza sullo sviluppo della mia vita anche se, da ragazzetto, la vista dell’abbattimento degli animali, anche in grande numero, non sembrava avere un effetto incidente sulla mia coscienza. Ricordo di non aver mai sopportato violenze e meno verso altri. Allora non avevo conosciuto ancora che la vita è solo violenza e quello che si contrabbanda per costume umanitario non è che una convenzione che fa pagare ad altri o ad altro il suo prezzo, anche psicologico.
Una precoce esperienza del male mondano, si direbbe; tema che ricorre e che viene trasceso in alcune sue opere artistiche. Franco Loi parla di una «vocazione alla
santità» in riferimento alla produzione di Tomiolo:
«vocazione […] che stride col naturale muovere del poeta e dell’artista. Non siamo più nel campo dell’estetica, ma nel vuoto della religione. È la rimozione del campo romantico per riabbracciare l’antica vocazione al sacerdozio, al "fare il sacro": mettere l’estetica
ai piedi della santità, a testimonianza di un destino sacro degli uomini.»
Nel libro di esordio "Osèo gemo" (Scheiwiller, Milano, 1984) si trova un esplicito riferimento al Libro di Gioele, con il nucleo riguardante il Giudizio finale ma in una riduzione intimistica, essenzialmente privata:
«io lirico - scrive Matteo Vercesi nel saggio "La Bibbia riscritta e illustrata. L'opera di Eugenio Tomiolo" - potrebbe essere incarnato da una donna in attesa del marito o dell’illuminazione di un Amore più vasto, in uno scenario che ha perso ogni connotato
materico e che appare nutrito da ‘mente’ e ‘spirito’.»
Patir, morir, xé spetar da l’Amor,
sorider xé, a quel che vede e cura,
e po’ el dolorar de ore el gìassa.
Se vedaremo ’l dì de Giosafatte
tute insieme, scoltar i Trombetieri.
No’ xé da mì sligar dal lai ’sti nodi
de la memoria, de marìo amante.
No’ xé da mì sligar dal lai ’sti nodi
de la memoria, de mugèr amante.
L’ultimo componimento della raccolta che inizia con il verso "Signor, Signor, inségnime…" pare invece ispirarsi alla lettura dei Salmi; è il canto di un afflitto che proclama la propria sudditanza a Dio, totale, attraverso una lamentazione cadenzata da un frequente ricorso all’epanalessi [una figura retorica che consiste nel ripetere, raddoppiandoli, una parola o un segmento discorsivo all’interno, al centro o alla fine di una identica unità testuale e tende all’amplificazione emozionale del discorso, dato che il termine ripetuto crea una tensione comunicativa per le operazioni interpretative] immerso nella natura
che si condensa in elementi primordiali: l’acqua del fiume, l’aria simbolo di ascensione, la terra, materia sopra cui si andrà a poggiare la nave di legno costruita dall’uomo.
Il termine «Signor», all’interno dei 53 versi che strutturano la poesia, compare su un piano dei sinonimi: «Dio» e «Lu» (‘Lui’) che si attestano e si trasfigurano in autentica preghiera, permeata di quella che Bonhoeffer definisce «la ricchezza della parola di Dio» in antitesi alla povertà del cuore umano, scrive sempre Vercesi.
Ma ci sono altri temi cari a Tomiolo poeta, come quello della Sapienza, strettamente connesso al rivelarsi del mistero di Dio,
da cui dipende capire, meglio discernere, il cammino lungo il quale bisogna procedere per arrivare a conquistare la "vocazione alla vita". L’uomo è creatura imperfetta alla ricerca della Grazia; Tomiolo lo afferma prepotentemente in una lirica della seconda raccolta edita, "Aqua" (Scheiwiller, Milano, 1991)
Come Signor che ti ti va da solo
Cussì xe ’l to meschin qua zo dabasso
Che ’l va restando dentro l’aura Tua
Solo cussì lu ’l gode el refrigerio
Solo cussì el gode el To consolo,
Nel star ne l’ombra Tua lu qua da solo.
El sente che lo toca la To Grazia
E la virtù festante lo desfassa,
Tanto el capisse che la so fame el.
Nell’episodio della Crocifissione
narrata nel Vangelo di Matteo:
«Gli diedero da bere vino mescolato con fiele; ma egli, assaggiatolo, non ne volle bere».
Il fiele bevuto da Cristo, simbolo di oltraggio, di mancanza di pietas, di tradimento umano e di estrema depravazione morale, presente anche nel Salmo 69 («Hanno messo fiele nel mio cibo, e mi hanno dato da bere aceto per dissetarmi»).
Per Tomiolo la necessità di caricarsi dei mali del mondo, di modificare i limiti materici del cosmo attraverso l’invenzione artistica è fondamentale. Ecco allora:
Co penso ’l fiel che ga bevuo el Cristo
me piase sempre più ’sta aqua amara.
Poeta sò, pitor ne l’universo,
questo mi posso dar vibrar profondo […].
Un "vibrar profondo", questa è stata tutta la vita di Tomiolo, amici lettori che avete avuto la bontà di seguirmi sin qui.
Poesia che è canto e visione, attesa e ascolto della parola di Dio:
Poesia xe Lu e mi e quei che scolta
ricordate?
Sì la poesia se mostra sempia e grama.
Sensa l’amor de Dio che la aluma»
Si la poesia è "sempia" senza un dialogo costante con Dio, ma anche condizione di humilitas, come insegna il Vangelo:
Ti gabi religion, ga scrito el Mestro,
Che ’l devegnir se fa adorar da naltri,
Sta atento de no aver onor che piasa.
Lo stiamo veramente facendo oggi?
Credo di no, sapete.
Che cosa è Cristo se non una incarnazione d’umiltà, riscatto e redenzione per i dimenticati, gli esclusi? Questo ci dice Tomiolo nella sua arte e nella sua poesia.
«El passa fermo el Cristo par le piasse, / A l’alba, quei coi sachi, soto i pomi / I va rancurar i osei morti»; capace di spegnere la disperazione umana: «la disperazion, che ’l Cristo stua», quando nemmeno il Padre appare in terra, ma soltanto in lontananza, in Cielo: «E gnanca Dio qua intorno, solo in çielo».
Franco De Faveri, nella sua prefazione ad "Aqua", sostiene che la poesia di Tomiolo «si vuole dunque specchio e insieme esecuzione della ben più alta e sublime poesia che è il
cosmo stesso, opera, musica divina».
Un panteista, si può dire in buona sostanza, convinto dell’irradiazione amorevole di Dio:
Dio ne vol ben, vivemo el so elogio.
Dando ’l clamor de festa al Dio che ama.
Ecco allora che l'arte non si puo esimere dal pensare alla creazione del mondo come se fosse una continua e interrotta "Parola del Mondo":
… te stemo soto
a ciacolar de Dio e dei Fatori.
Xe co’ la tera che Dio ne ga fato,
per dirve, tera mi dopararò.
I confini tra fare poetico e fare artistico sfumano: la parola è materia e l’arte è rappresentazione e celebrazione di un Verbo che affratella. Nella Bibbia, la Parola di Dio
("dabar" in ebraico), se per certi aspetti presenta una vitalità pari a quella dell’uomo, per altri dimostra di essere dotata dell’infallibilità che gli è propria: compie l’atto originale della Creazione (Genesi 1; Salmi 32) e rimane al medesimo tempo sempre presente e attiva nell’universo, per governare la natura e per custodire tutti gli uomini. La parola divina è azione e per Tomiolo l’artista ripropone l’atto originario della creazione.
Mi piace chiudere questi tre scritti dedicati alla poesia di Tomiolo per la rubrica di REM con questa poesia:
L'universo, desso qua, xe verde lisiero
che buta tuti i so colori, fora.
Nasse el verde oculto, dei Splendori.
Inverda el campo, el giardin, el prà;
nialtri ai altri, ghe demo fiori,
fati dai Astri, dai Pianeti amori.
Ti Nova Gutemberg dai pochi piombiti
te voi giuntar un nervo de l'Amore,
che aceta, con comosion, questi favori.
(da Eugenio Tomiolo, "Un amor che'l cuor me strense co' dei spini me dise cosse, che no ga confronto", en plein edizioni, Milano, 1998, 90 copie, con un'opera dell'artista).
Eugenio Tomiolo, pitor spinà da vision, è morto a Rovigo nel 2003. Quest'anno ricorre il ventennale. Sarebbe bello è interessante riuscire a dedicargli una mostra. Se lo merita davvero. Avrebbe poi un carattere nazionale perché Tomiolo a cavallo degli anni '80 e '90 era sulle pagine culturali di tutti i principali quotidiani italiani. Credetemi sulla parola.
Terza ed ultima parte.
Note
¹ da "Eugenio Tomiolo. Me amor che'l cuor me strense co' dei spini. Me dise cosse, che no ga confronto", en plein edizioni edizioni, Milano, 1998, in 90 copie.
L'opera poetica del maestro Tomiolo:
Oseo gemo, Scheiwiller, 1984;
Aqua, Scheiwiller, 1991;
Farse la luna, Liboà, 1994;
Franco Brevini, suo grande estimatore, lo ja dapprima inserito inserito nell'antologia Poeti dialettali del Novecento (Einaudi, 1987) e poi nei tre volumi dei "Meridiani Mondadori" dedicati al dialetto (1991).