Simone Martinello ci parla ancora della poesia di Luciano Cecchinel.
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Luciano Cecchinel. Par altri òci e altre reje.

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Luciano Cecchinel. Par altri òci e altre reje.

nina nana de na òlta

che solche ’l vènt dès al scolta

đal stran a stròz đe i cortivi

te ’n calif fis… malgalivi

đa le storie đel carol

su te i lenċ sorđi đel piol.

 

«Credo ci sia un autore che, scrivendo in italiano e in dialetto, si è già collocato in una valida posizione di attenzione e ascolto: mi riferisco a Luciano Cecchinel, uno scrittore, un poeta, che essendo ancora abbastanza giovane, potrà sicuramente dare altre prove di grande valore». Sono le parole di Andrea Zanzotto - intervistato nel 2007 in occasione della morte di Luigi Meneghello - alla domanda: «Nella nostra regione, ci sono oggi autori in grado di proseguire il cammino dei tre maggiori scrittori del Novecento: Zanzotto, Rigoni Stern e, appunto, Meneghello?»¹Da questo momento in avanti, Cecchinel diventa l'erede del poeta di Pieve di Soligo.

«Conobbi Zanzotto nel 1988 a un premio letterario: lui fu premiato per la sezione dialettale di Idioma e io ebbi una menzione speciale per il mio primo libro, Al tràgol jért, di cui egli avrebbe fatto la presentazione - evento tra i miei più temibili - qualche mese dopo. Da allora il nostro rapporto, per parte mia fu un percorso arduo e accidentato, per il senso di soggezione che provavo nei suoi confronti, derivato dalla lettura delle sue opere. Con forse sfrontata sincerità gli dicevo che mai sarei potuto essere suo amico, “in disgrazia” del suo soverchiante livello culturale. Ma nella più tremenda delle prove egli fu vicino a me e a mia figlia come pochi altri: non potei più non riconoscerlo amico. Devo però dire che, nonostante il moltissimo tempo passato insieme, un rapporto normalmente umano ebbe luogo solo a partire dal suo decadimento fisico».

 

Crośe crośat ²

 

Dès che ò vèrt al cadenaz dur

del stàul stracolmo e orbo

l’é na risa de ciaro guast

su sto sparpagnamènt de restèi sechi,

de dèrle rote e faldin rudenidi

che sa ’ncora da mènta e strafói,

tut an siròc malsan

sul me coat de pavée.

Dès che fa ’n stròlego ò fat

de le inpreste soàde

e pò inpreste de le fadighe,

mi, caról carolì de canàgola,

fae mamì de mi panevin:

de sudor, de agreme e sangue

mea la é la raśìa pi vera

e meo l’à da èser al fun

cusì o che ’l vae su verso sera

o che ’l vae su verso matina

no ’l ve portarà polènta e farina...

sol zendre trist par la òstra caljera.

Ma la me tegnarà l’aria lidiera,

parfun despèrs

de ròśe salvàreghe e raśa,

oro balerin de spenaz

te telarine sutile de sol.

E fursi te n’antro an de la fan

la me ultima traza

fa na fiantigoleta

la sluśarà da in tra le stele,

fa ’n tośatèl lontan

la batolarà pian tel vènt,

tel screcolamènt alt de i ran

infasadi dal nef,

par altri òci e altre reje.

 

(Croce crocione. Adesso che ho sbloccato il catenaccio duro / dello stabbio stracolmo e cieco / c’è una scia di luce guasta / su questo sparpagliamento di rastrelli secchi, / di gerle rotte e falci arrugginite / che sanno ancora di menta e trifoglio, / tutto uno scirocco malsano / sul mio giaciglio di falene. / Adesso che come uno stregone ho fatto / degli attrezzi cornici / e poi attrezzi delle fatiche, / io, tarlo tarlato di collare, / faccio da me stesso di me un grande fuoco: / di sudore, di lacrime e sangue / mia è l’eresia più vera / e mio deve essere il fumo / così che, sia che salga verso occidente / sia che salga verso oriente, / non vi porterà polenta e farina... / solo cenere amara per la vostra caldaia. / Ma mi terrà l’aria leggera, / profumo disperso / di rose selvatiche e resina, / oro ballerino di pennacchi / in ragnatele sottili di sole. / E forse per un altro anno della fame / la mia ultima traccia / come una piccola favilla / rilucerà di tra le stelle, / come un bambino lontano / bisbiglierà nel vento, / nello scricchiolio alto dei rami / fasciati dalla neve, / per altri occhi e altri orecchi.)

 

Al tràgol jért è un libro di contemplazione dove non mancano i momenti in cui la bellezza è in primo piano e ci ritroviamo in essa. Oltre a contemplare, però, Cecchinel insegue, o è inseguito da qualcosa: ansie che sembrano capaci di alterare ogni percezione.

Ci sono ossessioni personali (“Crose crosat”, per esempio, una formula che serve ad allontanare o ad annullare un’influenza maligna) finché si trova una "piccola favilla" che può confortare. L'autore si confonde con il paesaggio, con le anime che lo vissero, in uno spazio di tempo e natura, ricettacolo di sensazioni e passioni.

La sua lirica rimase volutamente sconosciuta fino alla pubblicazione della raccolta di poesie Al tràgol jért, nel 1988.

Scritto nell'antico dialetto di una valle isolata, nel basso bellunese, è pervaso da una lingua che è lo specchio del paesaggio che la "ospita". Lingua del "sentire", dunque, il dialetto: un voler stare nella consapevolezza delle cose autentiche.

Una lingua è viva finché tra gli umani predominano i sentimenti, le emozioni, le memorie, finché non si siano esaurite le esperienze vissute attraverso di essa. Un codice linguistico singolare quello usato da Luciano Cecchinel: una scelta meditata, approfondita in maniera minuziosa, nell'intento di preservare questo lessico dall’oblio. Certo, i dialetti non sono più quelli dei nostri padri, o dei nostri avi, ma è anche vero che perdura la nostra vicenda umana entro quei dialetti, perdura la nostra storia, e così la nostra voce può assumerne il colore.

Attraversare i versi del poeta di Revine-Lago è un po' come tornare a sedersi vicino al focolare di un camino di altri tempi, in un'intimità ricca di silenzi, ritrovando preziosi valori maturati nella dura fatica del lavoro. Si respira quel "sacro" che sta scomparendo dalle nostre vite. Quel "sacro" che è sempre istanza collettiva quando è mosso da una profonda tensione lirica, come quella espressa nella poesia di Cecchinel.

Così ne parlò Zanzotto³: «Questa prima raccolta di poesie di Luciano Cecchinel colpisce profondamente, specie in rapporto al momento attuale in cui la letteratura dei vari dialetti sta arricchendosi come manifestazione poetica, e perfino debordando in rapporto all'ormai scarsa presenza del teatro dialettale e alla quasi inesistente produzione in prosa. [...] Il libro di Luciano Cecchinel fa veramente spicco: si è di fronte alla netta affermazione di una personalità che non si esita a dire fin dall'inizio "violentemente" caratterizzata.

È raro che un'opera prima, anche se non di un giovanissimo, presenti i caratteri della migliore maturità. Al tràgol jért ha infatti un suo respiro che viene dal profondo, e, in esso, si verifica una singolare convergenza, per quel che riguarda i temi, tra il quadro del passato anche remoto e le sue proiezioni nel presente, mediate da una particolare disposizione psicologica individuale, da una storia interiore che è vocata a un discorso di avvicinamento a questo passato proprio perché sentito, in qualche modo, come remoto. Ma l'essere nel remoto, oltre i confini, è peculiare di questi paesaggi e anime e sentimenti-attimi dell'autore, che tutto percepisce entro la curvatura deformante, eppure moltiplicante, dell'aver sofferto, ed entro il senso dell'essere (stati) morti insieme coi morti, gli "affaticati" per eccellenza, anche se per loro si vuol sempre parlare di "pace". Lo spirito che domina in questo libro appare soprattutto come coinvolgente pietas nei confronti delle immense sofferenze che l'uomo ha dovuto affrontare ogni giorno nel lavoro, nella realtà di una vita che quasi sempre è stata soltanto lotta per la più misera sopravvivenza.»

 

Débol l’é ’l parfun

 

 

Débol l’é ’l parfun de la ròsa salvàrega

- la lo cuna fursi l’aria del bòsc -

che sol le sgnare che ’l jaz l’à secà

pol sentir.

 

Sutil fa i so aghi al saor

de la baleta blu del denéver

- al la à inzucherada ’l nef de la nòt -

che solche i dènt che la fan la à ligà

pol sajar.

 

Monesin al fiòc del susinèr

- al fa gate zigagno,

pedin balerin del ciaro vivo -

che sol i det che la fadiga freda à rostì

pol proar.

 

Fin l’è ’l nef ingelà

- al lo leva sote ’l zelèste ’l pra alt,

color de ale sdefade tel sol -

che sol i òci che ’l scur l’à inorbì

i pol véder.

 

Lidier al susuro del fastuc in tel vènt

- imiserì ’l trema tel velo del sol -

che sol le reje che la sòn la à cetà

pol scoltar.

 

(Debole è il profumo. Debole è il profumo della rosa selvatica / - lo culla forse la brezza del bosco - / che solo le narici che il ghiaccio ha disseccato / possono sentire. // Sottile come i suoi aghi il sapore / della bacca azzurra del ginepro / - l’ha zuccherata la neve della notte - / che solo i denti che la fame ha legato / possono assaporare. // Soffice il fiocco del susino / - solletica zingaro, piedino danzante della luce viva - / che solo le dita che la fatica fredda ha screpolato / possono provare. // Fine la neve gelata / - la solleva sotto il celeste il prato alto, / colore di ali disciolte nel sole - / che solo gli occhi che l’oscurità ha accecato / possono vedere. // Lieve il sussurro della festuca nel vento / - infreddolita trema nel velo del sole - / che solo le orecchie che il sonno ha acquietato / possono ascoltare.)

 

Cecchinel ama l'infanzia e la sue prerogative: lo stupore e la meraviglia.

Come in Nina nana đel vènt

 

Sta cet ti tosatèl bèl

vozeta lònga đe gnèl

se tu tas đó ’n fià tu sènt

la nina nana đel vènt

 

nina nana đel calif

che la ien pian pian dó đa i nif

de oselet ceti che i đròn

te fastuc caldi đe sòn

[...]

nina nana de na òlta

 che solche ’l vènt dès al scolta

đal stran a stròz đe i cortivi

te ’n calif fis… malgalivi

đa le storie đel carol

su te i lenċ sorđi đel piol.

 

(Stai quieto tu bel bambino / vocina lunga di agnello / se taci un attimo puoi sentire / la ninna nanna del vento // ninna nanna della foschia / che viene pian piano giù dai nidi / di uccellini quieti che dormono / fra festuche calde di sonno […] // ninna nanna di una volta / che solo il vento / adesso ascolta / dallo strame vagabondo dei cortili / in una foschia fitta…accidentati / dalle storie del tarlo / sui legni sordi del ballatoio».

 

Scrive Matteo Vercesi, commentando la poesia Agrost«La poesia diviene una preziosa eredità da conservare: fissa la realtà, la rende avulsa dalla corruzione del tempo nella memoria. La parola è un dono da offrire ai giovani, depositari della transizione del sapere; ed è un monito contro ogni mercificazione»⁴:

 

No l’é pi ređità no, tosat,

se no l’ é ređità i grun de slama

đe sta tèra romài senza lat,

reoltađa e fata onta e grama

đa na jènt bisa che co i so schèi fa jara

la à cređest de ciorse a mesura

al re đel castèl e la so smara

qua đó sul pian e su là in jertura

co bùbole che zigna e no sòla

e putin rosi che no i é mazarói⁵

e che đa in tra mèz bar đe pezòla

i roseghéa le mènt, cofà carói.

 

(Non c’è più eredità no, gioventù, / se non sono eredità i grumi di fango / di questa terra ormai senza latte, / rivoltata e ridotta unta e sterile // da una gente cupa che coi suoi soldi come ghiaia / ha creduto di prendersi a misura / il re del castello e la sua stizza / qua giù sul piano e su là sull’erta // con lucciole che nicchiano e non volano / e putti rossi che non sono mazarói / e che da in mezzo cespugli di erica / rodono le menti, come tarli.) 

Cecchinel è poeta di sapienza ed esperienza. «Trascina i lettori - scrive Zanzotto in "il Belli" - a percepire e ad ammettere di trovarsi davanti a una «chanson complète», ad un disegno svolto fino in fondo, ad un tutto, che una volta uscito dalla virtualità, non lascia più strade. Ma proprio tale radicalità chiama come contrappunto un'invenzione imprevedibilmente nuova, come quella piena di giovanile freschezze e albori che si ritrova in tutta la prima parte del libro, di massima importanza per capirne l'articolazione. Ed essa veramente sembra riannunciare le luci ancora rimbaldiane di un'innocenza senza tramonto, di un mondo in cui è dato trovare giusti cammini di incanto e autoincanto»:

 

Tóvena via là sote Nàdega

 

Tanti ani 'ndrio su la strada par Tovena

mi e 'n tosat de crosera

co le stele via là su sora Nàdega,

lumin alti e deboi de zera.

 

La cantéa do sote le siole la jara,

al fret al strendéa fin tel médol,

sote son de luna la strada ciara

la paréa na scorza de brédol.

 

Fursi era l'ultima sera de l'an

e torgoi de most dolz e pesa,

ingrumadi te 'n sonc calt fa 'n pastran

se 'ndéa su la strada revèsa

 

par rame vece che no le véa màntega

a dir de i concoi da de fer

e te 'n pensar fis e scur come rédega

l'ora l'era 'n pon de solèr

 

e cusì bela ogni tosa e pò mèstega

dopo, che in tra gàtoi de son,

su da drio 'l zendre posterno de Nàdega,

se 'ndéa in contra i crep del valon

 

là 'ndé che era 'l fien biondo de quela

co i oci fa de viole smaride

e che lu l'oléa cior do fa na stela

sote quel'altre incrudelide.

 

Ma lu l’à catà an poc dopo na stròlega

e mi ò sentist al cor stret de scaje

cusì lontan da le stele de Nàdega,

inzepedì fa ’n pez cuèrt de gaje.

 

E dès no sò pròprio pi gnanca mi

ndé che ’l sie ’l to?at cet de lora,

fursi a stròz che ’l se reòlta stremì

o che ’l bef mael fa na lora,

 

fursi che ’l dròn col most calt te la mènt

cròt de fret, de brò?a e de scragna…

e ogni di ’n poc de pi, fa fun tel vènt,

ti pòre nòt, tu te sparpagna

 

ma su le òlte galive e le stale

de quela nòt tèndra de Tóvena

veja débole tante àgreme dale

da su sora i pra jerti de Nàdega.

 

(Tovena via sotto Nadega. Tanti anni addietro sulla strada per Tovena / io e un povero ragazzo di crocevia / al seguito delle stelle via là sopra Nadega, / lumini alti e deboli di cera. // Cantava giù sotto le suole la ghiaia, / il freddo stringeva fin nel midollo, / sotto sonni di luna la strada chiara / pareva una scorza di betulla. // Forse era l’ultima sera dell’anno / e torbidi di mosto dolce e moccio, / raggrumati in un sogno caldo come un pastrano, / andavamo sulla strada rovescia. // per rame vecchie che non avevano maniglia / a dire delle porche già di ferro / e in pensieri fissi e scuri come centonchio / l’ora era una mela di solaio // e così bella ogni ragazza e mansueta / dopo, quando tra gattici di sonno, / dietro la cenere ombrosa di Nadega, / andavamo incontro ai dirupi della valle profonda // là dov’era il fieno biondo di quella / con gli occhi come di viole sbiadite / e che lui voleva cogliere giù come una stella / sotto le altre intirizzite. // Ma lui ha incontrato un po’ dopo una strampalata / e io ho sentito il cuore stretto di schegge / così lontano dalle stelle di Nadega, / intorpidito come un abete coperto di gazze. // E adesso non so più neanch’io / dove sia il ragazzo quieto di allora, / forse ramingo che si dimena stremato / o che beve da solo come un imbuto da botte, / forse che dorme col mosto caldo nella mente / malato di freddo, di brina e sporcizia… / e ogni giorno un po’ di più, come fumo nel vento, / tu, povera notte, ti dissolvi // ma sulle svolte lisce e le stalle / di quella notte tenera di Tovena / vegliano deboli tante lacrime gialle / da su sopra i prati erti di Nadega.)

 

Ascoltiamolo, questo poeta, tanto appartato quanto straordinario: per altri occhi ed altre orecchie.

 

[Il mio "incontro" con Luciano Cecchinel si concluderà nel prossimo appuntamento di questa rubrica.]

 

Note

 

¹ Il titolo dell'articolo: «Zanzotto: Era gergo e alta letteratura. L’erede? Penso al giovane Cecchinel”», intervista di Emanuela Da Ros, in “Corriere del Veneto”, 27 giugno 2007.

 

² crośe, crośat: formula di scongiuro cui si accompagna talvolta il gesto di disegnare per

terra, col piede o con uno stecco, delle croci (da ndt a Al tràgol jért di Luciano Cecchinel,

 

³ "Sulla poesia di Cecchinel. Al tràgol jért (L'erta strada da strascino)" in «il Belli», anno II, n. 3, Roma 1992.

 

⁴ Matteo Vercesi, "Lungo la traccia delle parole - Identità individuale e collettiva nella poesia di Luciano Cecchinel", in “Italianistica, n. 3, settembre / dicembre 2006.

 

⁵ Il mazarol, «figura capitale e tuttavia ambigua della cultura contadina veneta, può essere verosimilmente considerato una proiezione della sua coscienza subalterna. Viene descritto come un ometto vestito di rosso, temibile per le sue imprevedibili burle; è peraltro talvolta nominato in funzione tutelare o vindice». (dalle Note al testo)

«Il Massariol nasce come il tarlo da un pezzo di legno, è un folletto tutto veneto, anche se ne troviamo di simili in altre tradizioni». Dino Coltro, "Gnomi, anguane e basilischi. Esseri mitici e immaginari del Veneto, del Friuli-Venezia Giulia, del Trentino e dell’Alto-Adige" (Verona, Cierre, 2006).

 

⁶ Tóvena: paese situato nel Comune di Cison di Valmarino.

Nàdega: alto e lungo crinale che dalla dorsale prealpina si protende verso il centro della Vallata in corrispondenza del confine fra le circoscrizioni territoriali dei Comuni di Revine-Lago e Cison di Valmarino e che, sovrasta, all’interno della seconda, l’abitato di Tóvena.