Luigi Bressan El sercadore
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- Notizia pubblicata il 3 dicembre 2023
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- Scritto da Simone Martinello | Filò sull'aia della poesia. I poeti veneti
… te ghè sintìo la bissa incantà
te ghè sintìo le gaze paa canpagna…
«Pace per voi per me / buona gente senza più dialetto», scriveva Andrea Zanzotto nel 1957, denunciando la paralisi dell'idioma nativo, legandola alla «catastrofe dell'italiano». Poi, però, il dialetto lo utilizzò molto, perché “c'era sempre qualcosa di fasullo / in quello che scrivevo in Italiano.”
Come già fece questo grande poeta c'è quindi da chiedersi:
“O vera lingua mia, dove sei?”
Il problema decisivo, tanto per il poeta che per l'uomo, essendo egli un animale parlante, appare questo: “Dov'è la lingua? E quale lingua io posso veramente dire mia?”
Come ben ha colto Giorgio Agamben:
«La letteratura italiana andrebbe considerata come un prezioso assemblato di letterature regionali, le quali ci restituiscono l'immagine di un processo di unificazione nazionale lento e complesso, di recente acquisizione se raffrontato a quelli di altri grandi Paesi europei (si pensi alla Francia, alla Germania, all'Inghilterra); una Babele di lingue ove confluiscono tensioni multiformi e nella quale si respirano sedimentazioni secolari, intersezioni e incroci di culture. La poesia dialettale, in un'epoca globale, rimette in gioco la questione della pluralità delle identità e lo status di lingua nazionale e ufficiale, configurandoli entro un processo storico aperto a plurime interpretazioni, che in quanto tale può essere riscritto.»
Da qui nasce la convinzione che la poesia italiana sia nata con Dante sotto il segno del bilinguismo: il volgare, il “parlar materno”, che apprendiamo da bambini senza alcuno studio, e la lingua, che il Sommo definisce secondaria o “grammatica”, che apprendiamo a scuola attraverso anni e disciplina.
Pare fondamentale riportare l'esperienza del linguaggio al suo punto sorgivo, là dove, come scriveva Zanzotto, “si tocca con la lingua il nostro non sapere di dove la lingua venga, nel momento in cui viene, monta come un latte.”
Non è certo un caso se la grande fioritura della poesia italiana del Novecento sia stata anche accompagnata da un'altrettanto importante fiorire della poesia in dialetto. È probabile che esse siano così strettamente connesse, intersecate, tanto da dire: senza l'una l'altra non esisterebbe.
Ed eccoci, allora, al punto sorgivo di Luigi Bressan, poeta di notevole spessore:
«Ho scritto la maggior parte dei miei testi in una variante basso-veneta, la mia lingua nativa della padovana, con termine ai territori di Venezia e di Rovigo e tuttavia influenzata anche dal vicentino. Devo aggiungere che prima della lingua della poesia, che mi si è rivelata piuttosto tardi, ho parlato questo dialetto sempre fino ai 13 anni, età in cui mi sono trasferito con la famiglia in Friuli. Qui ho continuato a parlarlo in famiglia. Mia madre, friulana, aveva studiato stabilmente in Toscana, in provincia di Siena, e parlava un italiano squillante, dal lessico ricco, che influenzò il mio orecchio; ma aveva appreso subito anche il veneto. Non mi ha mai parlato nel friulano, che pure conosceva, che io ho praticato per conto mio come terza lingua e uso volentieri nel quotidiano della piazza, ma non ho mai scritto.»
Puisìa
Vurìa scrìvare ’a pì bela puisìa
ca so’ malà de ela – no tanto
da murire – pa’ spéndarla
come ’a moneda pì fruà
o forse pa’ cantarla, pa’ donarla
o pa’ butarla via.
El vento me ’a torìa
dae man, da’ sbacjo
dea boca sensa on baso
pa’ tegnèrla tel vaso
dea so sen, che ’l porta
sol verde e sol brusà.
El me farìa contento
che, persa, ’a sercarìa
e anche tuti i altri ne vurìa.
(Poesia. Vorrei scrivere la più bella poesia, ché sono malato di lei – non tanto da morirne – per spenderla come la moneta più frusta o forse per cantarla, per donarla o per gettarla via. Il vento me la toglierebbe dalle mani, dalla bocca socchiusa senza un bacio, per tenerla nel vaso della sua sete, che porta sul verde e sul bruciato. Mi farebbe contento che, persa, la cercherei e anche tutti gli altri ne vorrebbero.)
È il componimento che apre la raccolta di esordio di Bressan, El canto del tilio ("Il canto del tiglio", Campanotto, 1986), ed il titolo ci parla, in una parola - Puisìa - della sua "poetica": una malattia da cui non si guarisce per chi ne viene contagiato, ma nemmeno si muore, il cui scopo è di aprirsi alla bellezza del mondo naturale per farne dono agli altri; ma anche per gettarla via, se si vuole, ma, una volta persa, continuare ad abbeverarsi alla sua fonte.
Assetati!
Bressan è poeta di parole umili e dimesse, semi che dimorano nel solco della tradizione veneta, dove la Natura ha sempre avuto (almeno un tempo) un posto predominante, da lui "cantata" in modo originale.
Ecco allora apparirci l'allodola:
La odoleta
La odoleta, che se cava
da soto i piè, la salta
stravento, la roéga
so l’aria, la baléza
la zùgola soe spagne.
E la ga senpre in gola
come na bola
de pietà contenta.
Mai no ’a se lamenta:
la fa na vita sola
de fadiga e de canto…
(La lodoletta. La lodoletta che frulla da sotto i piedi, salta controvento, arrampica sull’aria, balugina, brilla sui trifogli. Ed ha sempre in gola come una bolla di pietà contenta. Mai non si lamenta: fa una vita sola di fatica e di canto…)
Ci vengono incontro gli argini della bassa padovana (ma che sono, poi, un po' tutti i nostri argini), con i putèi, che sembrano esserci nati sopra, colti in un'atmosfera incantata e sospesa:
L’àrzare
So l’àrzare i putèi ghe pare nati:
i’ tira longo el fià; co l’aria lustra
le foje soe piope, sui salgari
ghe lùsega anche l’ànema ’nti ocj
ghe lùsega on pesse ch’i’ ga i’ man.
Na barca li speta ligà riva
chi sa da coanti ani che ’a ze là:
ogni note i’ s’insogna de vogare
i’ la cata ogni dì meza fondà.
(L’argine. Sull’argine i fanciulli ci sembrano nati: respirano profondamente; quando l’aria lustra le foglie sui pioppi, sui salici, luccica anche l’anima nei loro occhi, luccica loro un pesce che hanno in mano. Una barca li aspetta legata a riva, chissà da quanti anni è là: ogni notte sognano di vogare, la ritrovano ogni giorno mezzo affondata.)
El canto del tilio
El sole va calando: me n’incorzo
dala cjoma d’on tilio, tuta d’oro
dele so creste, che ghe spande fuora
na nuvola de pólvare e de sono.
Le ave tuto el dì ghe ze stà soto
e za el so canto jera come el miele.
Co sarà morto el sole, el cjelo scuro
co fa le ave cantarà le stele
on canto dolse. E pure on puoco amaro
se ’l se conpagnarà co i suspiri
che l’àlbore de note manda in aria
co ’l sente ’ndare in tera i so bei fiuri.
(II canto del tiglio. II sole va calando: me n’accorgo dalla chioma d’un tiglio, tutta d’oro delle sue creste, che le spandono intorno una nuvola di polvere e di sonno. Le api tutto il giorno le sono state sotto e già il loro canto era come il miele. Quando sarà morto il sole, il cielo scuro, come le api canteranno le stelle un canto dolce. E pure un poco amaro, se s’accompagnerà coi sospiri che l’albero di notte manda in aria sentendo cadere a terra i suoi bei fiori.)
O poesie sanguigne, di realismo linguistico caratteristico del mondo contadino:
Luja
Vieni oncora longa
luja, ca no jera
bon liberarme da putèlo
parché no ghea capìo
la verità de la to fame.
Vieni oncora coe tete
molà, i ocj de cativo sono:
to fioi tuti i' ga magnà de late.
Vieni a dirme te na recja
el segreto, l'agresa
dolse dea to carne.
(Scrofa. Vieni ancora lunga scrofa, da cui non riuscivo a liberarmi da bambino perché non avevo capito la verità della tua fame. Vieni ancora con le tette perdute, gli occhi di cattivo sonno: i tuoi figli tutti li hanno mangiati di latte. Vieni a dirmi in un orecchio il segreto, l'agrezza dolce della tua carne.)
E, infine, la chiusa del libro con «la metafora della ricerca che diviene aleatoria allorché viene meno l'adesione di tutte le parti allo statuto del vero», come ben ha scritto il poeta Maurizio Casagrande nella postfazione a El Paradiso brusà ("Il Paradiso bruciato") che raccoglie l'opera integrale in dialetto di Bressan ("Il Ponte del Sale", 2014).
El sercadore
Serca e cata, cata e serca
na olta e do te contenta
riva coea che te assa a boca verta
a vardare torno el verde
sensa fiore che contrasta
e ogni trasa se perde.
Epure la matina jera neta
e l'aria fina e la 'oja conpagna:
te ghè sintìo la bissa incantà
te ghè sintìo le gaze paa canpagna
tirarse drio le cjacole del tenpo.
Scoasi te par paréa na inpromessa
po s'ha levà 'l vento
che soto i ocj el fa ressa
de foje vive e morte.
E serca e serca e serca:
come se puoe catare
se ti te fè sol serio e coelo schersa?
(Il cercatore. Cerca e trova, trova e cerca, una volta o due t'accontenta, arriva quella che ti lascia a bocca aperta a guardare intorno il verde, senza fiori che contrastano, e ogni traccia si perde. Eppure la mattina era netta e l'aria fina e la voglia compagna: hai visto la biscia incantata, hai sentito le gazze per la campagna tirarsi dietro le chiacchiere del tempo. Quasi ti pareva una promessa, poi s'è levato il vento, che sotto gli occhi fa ressa di foglie vive e morte. E cerca erca e cerca e cerca: come si può trovare, se tu fai sul serio e quello scherza?)
«... la sperimentazione operata da Bressan sul proprio dialetto non si è mai interrotta, raggiungendo forse il suo acme nel poemetto Vose par S., dedicato all'amico Sandro Zanotto» (in Un altro Veneto. Poeti in dialetto fra Novecento e Duemila, a cura di Maurizio Casagrande e Matteo Vercesi, Cofine, 2014).
Vose che risulta un universo di simboli dove fa da sfondo una pioggia quasi infernale:
… fintanto ch'i canai
se svena e riva ai ghebi ai gàtuli
ai curiàtuli partuto 'sta piova
che dura sempre e la credìimo morta
(... fintanto che i canali si svenano e arrivano agli agli scavi agli scoli ai rigagnoli dappertutto questa pioggia che dura da sempre e la credevamo morta)
Una pioggia intrisa di umori:
Taso el so (de Elo taso
anche el nome) volesse de accanto
fin da lora podarse sfassandose
dal sangue a spurgare so na tera
de sanguesuore de latespùo
de sborrapisso de àgreme e piove
e cussì rota de rive de creve
e fata de vale da volerghe tuta 'a sen.
E 'a fuma 'sta tera e 'a fuma 'sta acoa
come che 'a fumava podarse te Elo
de Elo e 'a se fuma intiero
el so fumare de teràcoa sensa.
[Taccio il suo (di Lui taccio anche il nome) volersi d'acqua fin da allora sfasciandosi dal sangue a spurgare su una terra di sanguesudore di lattesputo di spermaurina di lacrime e piogge e così rotta di prode di crepe e fatta di paludi sa volerci tutta la sete. E fuma questa terra e fuma quest'acqua come fumava forse in Lui di Lui e si fuma intero il suo fumare di terracqua senza.]
Umori, a quanto si può notare, di un mondo a noi familiare, dantesco:
Io sono al terzo cerchio, della piova
etterna, maladetta, fredda e greve…
si legge nel Canto VI dell'Inferno.
Non è certo una pioggia che possa recare beneficio, questa del poeta nato ad Agna.
Certo se l'acqua è impura, per l'inconscio è il ricettacolo del male, un ricettacolo di tutti i mali…, si legge in "Psicanalisi delle Acque" del filosofo francese Gaston Bachelard.
Ma è lo stesso Bressan ad ammonirci nella poesia Prima vose, che apre il poemetto di cui si scriveva appena sopra:
Luri sta sarà suso là tremindi
- do' ze là - i' magna no i' dorme
ti i' te assa magnare dormire
la so roba no i' perde de ocjo l'ocjo
magn-ànemo do' che tuto ti si' scrito
in riga in colona in grafico
sensa saerte èssare tel piato
dea grisa sena sènare del mondo.
(Loro stanno rinchiusi là tremendi - dove là? - non mangiano non dormono lasciano te mangiare la loro roba non perdono d'occhio l'occhio magn-animo dove tutto sei scritto in riga in colonna in grafico senza saperti essere nel piatto della grigia cena cenere del mondo.)
Detto questo, allora l'acqua può assumere tutto il significato che le dobbiamo.
***
Di questo poeta di alto profilo si continuerà a parlarne nel prossimo numero di questa rubrica.