La poesia di Luigi Bressan, prima parte
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Luigi Bressan El sercadore

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Luigi Bressan El sercadore

… te ghè sintìo la bissa incantà

te ghè sintìo le gaze paa canpagna…

 

«Pace per voi per me / buona gente senza più dialetto», scriveva Andrea Zanzotto nel 1957, denunciando la paralisi dell'idioma nativo, legandola alla «catastrofe dell'italiano». Poi, però, il dialetto lo utilizzò molto, perché “c'era sempre qualcosa di fasullo / in quello che scrivevo in Italiano.

Come già fece questo grande poeta c'è quindi da chiedersi:

 

“O vera lingua mia, dove sei?”

 

Il problema decisivo, tanto per il poeta che per l'uomo, essendo egli un animale parlante, appare questo: “Dov'è la lingua? E quale lingua io posso veramente dire mia?”

 

Come ben ha colto Giorgio Agamben:

 

«La letteratura italiana andrebbe considerata come un prezioso assemblato di letterature regionali, le quali ci restituiscono l'immagine di un processo di unificazione nazionale lento e complesso, di recente acquisizione se raffrontato a quelli di altri grandi Paesi europei (si pensi alla Francia, alla Germania, all'Inghilterra); una Babele di lingue ove confluiscono tensioni multiformi e nella quale si respirano sedimentazioni secolari, intersezioni e incroci di culture. La poesia dialettale, in un'epoca globale, rimette in gioco la questione della pluralità delle identità e lo status di lingua nazionale e ufficiale, configurandoli entro un processo storico aperto a plurime interpretazioni, che in quanto tale può essere riscritto.»

 

Da qui nasce la convinzione che la poesia italiana sia nata con Dante sotto il segno del bilinguismo: il volgare, il “parlar materno”, che apprendiamo da bambini senza alcuno studio, e la lingua, che il Sommo definisce secondaria o “grammatica”, che apprendiamo a scuola attraverso anni e disciplina.

 

Pare fondamentale riportare l'esperienza del linguaggio al suo punto sorgivo, là dove, come scriveva Zanzotto, “si tocca con la lingua il nostro non sapere di dove la lingua venga, nel momento in cui viene, monta come un latte.”

 

Non è certo un caso se la grande fioritura della poesia italiana del Novecento sia stata anche accompagnata da un'altrettanto importante fiorire della poesia in dialetto. È probabile che esse siano così strettamente connesse, intersecate, tanto da dire: senza l'una l'altra non esisterebbe.

 

Ed eccoci, allora, al punto sorgivo di Luigi Bressan, poeta di notevole spessore:

 

«Ho scritto la maggior parte dei miei testi in una variante basso-veneta, la mia lingua nativa della padovana, con termine ai territori di Venezia e di Rovigo e tuttavia influenzata anche dal vicentino. Devo aggiungere che prima della lingua della poesia, che mi si è rivelata piuttosto tardi, ho parlato questo dialetto sempre fino ai 13 anni, età in cui mi sono trasferito con la famiglia in Friuli. Qui ho continuato a parlarlo in famiglia. Mia madre, friulana, aveva studiato stabilmente in Toscana, in provincia di Siena, e parlava un italiano squillante, dal lessico ricco, che influenzò il mio orecchio; ma aveva appreso subito anche il veneto. Non mi ha mai parlato nel friulano, che pure conosceva, che io ho praticato per conto mio come terza lingua e uso volentieri nel quotidiano della piazza, ma non ho mai scritto.»

 

Puisìa

 

Vurìa scrìvare ’a pì bela puisìa

ca so’ malà de ela – no tanto

da murire – pa’ spéndarla

come ’a moneda pì fruà

o forse pa’ cantarla, pa’ donarla

o pa’ butarla via.

El vento me ’a torìa

dae man, da’ sbacjo

dea boca sensa on baso

pa’ tegnèrla tel vaso

dea so sen, che ’l porta

sol verde e sol brusà.

El me farìa contento

che, persa, ’a sercarìa

e anche tuti i altri ne vurìa.

 

(Poesia. Vorrei scrivere la più bella poesia, ché sono malato di lei – non tanto da morirne – per spenderla come la moneta più frusta o forse per cantarla, per donarla o per gettarla via. Il vento me la toglierebbe dalle mani, dalla bocca socchiusa senza un bacio, per tenerla nel vaso della sua sete, che porta sul verde e sul bruciato. Mi farebbe contento che, persa, la cercherei e anche tutti gli altri ne vorrebbero.)

 

È il componimento che apre la raccolta di esordio di Bressan, El canto del tilio ("Il canto del tiglio", Campanotto, 1986), ed il titolo ci parla, in una parola - Puisìa - della sua "poetica": una malattia da cui non si guarisce per chi ne viene contagiato, ma nemmeno si muore, il cui scopo è di aprirsi alla bellezza del mondo naturale per farne dono agli altri; ma anche per gettarla via, se si vuole, ma, una volta persa, continuare ad abbeverarsi alla sua fonte.

Assetati!

 

Bressan è poeta di parole umili e dimesse, semi che dimorano nel solco della tradizione veneta, dove la Natura ha sempre avuto (almeno un tempo) un posto predominante, da lui "cantata" in modo originale.

Ecco allora apparirci l'allodola:

 

La odoleta

 

La odoleta, che se cava

da soto i piè, la salta

stravento, la roéga

so l’aria, la baléza

la zùgola soe spagne.

E la ga senpre in gola

come na bola

de pietà contenta.

Mai no ’a se lamenta:

la fa na vita sola

de fadiga e de canto…

 

(La lodoletta. La lodoletta che frulla da sotto i piedi, salta controvento, arrampica sull’aria, balugina, brilla sui trifogli. Ed ha sempre in gola come una bolla di pietà contenta. Mai non si lamenta: fa una vita sola di fatica e di canto…)

 

Ci vengono incontro gli argini della bassa padovana (ma che sono, poi, un po' tutti i nostri argini), con i putèi, che sembrano esserci nati sopra, colti in un'atmosfera incantata e sospesa:

 

L’àrzare

 

So l’àrzare i putèi ghe pare nati:

i’ tira longo el fià; co l’aria lustra

le foje soe piope, sui salgari

ghe lùsega anche l’ànema ’nti ocj

ghe lùsega on pesse ch’i’ ga i’ man.

Na barca li speta ligà riva

chi sa da coanti ani che ’a ze là:

ogni note i’ s’insogna de vogare

i’ la cata ogni dì meza fondà.

 

(L’argine. Sull’argine i fanciulli ci sembrano nati: respirano profondamen­te; quando l’aria lustra le foglie sui pioppi, sui salici, luccica an­che l’anima nei loro occhi, luccica loro un pesce che hanno in mano. Una barca li aspetta legata a riva, chissà da quanti anni è là: ogni notte sognano di vogare, la ritrovano ogni giorno mezzo affondata.)

 

El canto del tilio

 

El sole va calando: me n’incorzo

dala cjoma d’on tilio, tuta d’oro

dele so creste, che ghe spande fuora

na nuvola de pólvare e de sono.

Le ave tuto el dì ghe ze stà soto

e za el so canto jera come el miele.

Co sarà morto el sole, el cjelo scuro

co fa le ave cantarà le stele

on canto dolse. E pure on puoco amaro

se ’l se conpagnarà co i suspiri

che l’àlbore de note manda in aria

co ’l sente ’ndare in tera i so bei fiuri.

 

(II canto del tiglio. II sole va calando: me n’accorgo dalla chioma d’un tiglio, tutta d’oro delle sue creste, che le spandono intorno una nuvola di polvere e di sonno. Le api tutto il giorno le sono state sotto e già il loro canto era come il miele. Quando sarà morto il sole, il cielo scuro, come le api canteranno le stelle un canto dolce. E pure un poco amaro, se s’accompagnerà coi sospiri che l’albero di notte manda in aria sentendo cadere a terra i suoi bei fiori.)

 

O poesie sanguigne, di realismo linguistico caratteristico del mondo contadino:

 

Luja

 

Vieni oncora longa

luja, ca no jera

bon liberarme da putèlo

parché no ghea capìo

la verità de la to fame.

Vieni oncora coe tete

molà, i ocj de cativo sono:

to  fioi tuti i' ga magnà de late.

Vieni a dirme te na recja

el segreto, l'agresa

dolse dea to carne.

 

(Scrofa. Vieni ancora lunga scrofa, da cui non riuscivo a liberarmi da bambino perché non avevo capito la verità della tua fame. Vieni ancora con le tette perdute, gli occhi di cattivo sonno: i tuoi figli tutti li hanno mangiati di latte. Vieni a dirmi in un orecchio il segreto, l'agrezza dolce della tua carne.)

 

E, infine, la chiusa del libro con «la metafora della ricerca che diviene aleatoria allorché viene meno l'adesione di tutte le parti allo statuto del vero», come ben ha scritto il poeta Maurizio Casagrande nella postfazione a El Paradiso brusà ("Il Paradiso bruciato") che raccoglie l'opera integrale in dialetto di Bressan ("Il Ponte del Sale", 2014).

 

El sercadore

 

Serca e cata, cata e serca

na olta e do te contenta

riva coea che te assa a boca verta

a vardare torno el verde

sensa fiore che contrasta

e ogni trasa se perde.

Epure la matina jera neta

e l'aria fina e la 'oja conpagna:

te ghè sintìo la bissa incantà

te ghè sintìo le gaze paa canpagna

tirarse drio le cjacole del tenpo.

Scoasi te par paréa na inpromessa

po s'ha levà 'l vento

che soto i ocj el fa ressa

de foje vive e morte.

E serca e serca e serca:

come se puoe catare

se ti te fè sol serio e coelo schersa?

 

(Il cercatore. Cerca e trova, trova e cerca, una volta o due t'accontenta, arriva quella che ti lascia a bocca aperta a guardare intorno il verde, senza fiori che contrastano, e ogni traccia si perde. Eppure la mattina era netta e l'aria fina e la voglia compagna: hai visto la biscia incantata, hai sentito le gazze per la campagna tirarsi dietro le chiacchiere del tempo. Quasi ti pareva una promessa, poi s'è levato il vento, che sotto gli occhi fa ressa di foglie vive e morte. E cerca erca e cerca e cerca: come si può trovare, se tu fai sul serio e quello scherza?)

 

 «... la sperimentazione operata da Bressan sul proprio dialetto non si è mai interrotta, raggiungendo forse il suo acme nel poemetto Vose par S., dedicato all'amico Sandro Zanotto» (in Un altro Veneto. Poeti in dialetto fra Novecento e Duemila, a cura di Maurizio Casagrande e Matteo Vercesi, Cofine, 2014).

 

Vose che risulta un universo di simboli dove fa da sfondo una pioggia quasi infernale:

 

… fintanto ch'i canai

se svena e riva ai ghebi ai gàtuli

ai curiàtuli partuto 'sta piova

che dura sempre e la credìimo morta

 

(... fintanto che i canali si svenano e arrivano agli agli scavi agli scoli ai rigagnoli dappertutto questa pioggia che dura da sempre e la credevamo morta)

 

Una pioggia intrisa di umori:

 

Taso el so (de Elo taso

anche el nome) volesse de accanto

fin da lora podarse sfassandose

dal sangue a spurgare so na tera

de sanguesuore de latespùo

de sborrapisso de àgreme e piove

e cussì rota de rive de creve

e fata de vale da volerghe tuta 'a sen.

E 'a fuma 'sta tera  e 'a fuma 'sta acoa

come che 'a fumava podarse te Elo

de Elo e 'a se fuma intiero

el so fumare de teràcoa sensa.

 

[Taccio il suo (di Lui taccio anche il nome) volersi d'acqua fin da allora sfasciandosi dal sangue a spurgare su una terra di sanguesudore di lattesputo di spermaurina di lacrime e piogge e così rotta di prode di crepe e fatta di paludi sa volerci tutta la sete. E fuma questa terra e fuma quest'acqua come fumava forse in Lui di Lui e si fuma intero il suo fumare di terracqua senza.]

 

Umori, a quanto si può notare, di un mondo a noi familiare, dantesco:

 

Io sono al terzo cerchio, della piova

etterna, maladetta, fredda e greve…

 

si legge nel Canto VI dell'Inferno.

 

Non è certo una pioggia che possa recare beneficio, questa del poeta nato ad Agna.

 

Certo se l'acqua è impura, per l'inconscio è il ricettacolo del male, un ricettacolo di tutti i mali…, si legge in "Psicanalisi delle Acque" del filosofo francese Gaston Bachelard.

 

Ma è lo stesso Bressan ad ammonirci nella poesia Prima vose, che apre il poemetto di cui si scriveva appena sopra:

 

Luri sta sarà suso là tremindi

-        do' ze là - i' magna no i' dorme

ti i' te assa magnare dormire

la so roba no i' perde de ocjo l'ocjo

magn-ànemo do' che tuto ti si' scrito

in riga in colona in grafico

sensa saerte èssare tel piato

dea grisa sena sènare del mondo.

 

(Loro stanno rinchiusi là tremendi - dove là? - non mangiano non dormono lasciano te mangiare la loro roba non perdono d'occhio l'occhio magn-animo dove tutto sei scritto in riga in colonna in grafico senza saperti essere nel piatto della grigia cena cenere del mondo.)

 

Detto questo, allora l'acqua può assumere tutto il significato che le dobbiamo.

 

***

Di questo poeta di alto profilo si continuerà a parlarne nel prossimo numero di questa rubrica.