Nerina Noro. E mi me godo a vardare 'na foia
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- Notizia pubblicata il 23 luglio 2023
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- Scritto da Simone Martinello | Filò sull'aia della poesia. I poeti veneti
Go pensà che piutosto de cambiare,
vado a l'inferno a farme cusinare.
C'è un'anomalia singolare nella poesia nazionale e regionale, che è però più evidente e marcata in Veneto: le pochissime donne che hanno scritto e pubblicato in dialetto a fronte del numero considerevole che hanno preferito farlo in lingua. Se da un lato scrivere in italiano può dare più visibilità, ammesso che sia veramente così, il vernacolo può essere avvertito, come ben scrive Matteo Vercesi,
«come lingua della sopraffazione, della sottomissione e della rassegnazione al luogo canonico di moglie, di madre o di regina della casa. Scegliere di non scrivere in dialetto, pertanto, potrebbe essere valso agli occhi di una poetessa veneta del secondo Novecento, quale forma di resistenza ed opposizione ad un simile cliché.»¹
Nerina Noro va dunque controcorrente ed è una delle rare eccezioni femminili che si sottraggono a questa "rimozione".
D'altronde, ancor oggi, persino tra le categorie scolastiche, si sente l'uso del dialetto come una minorazione, e questo - come ha sempre sostenuto Franco Loi - «è un altro effetto devastante della discriminazione linguistica». È l'altra faccia dell'Italia che aspetta fin dall'unità un riconoscimento. È la poesia che vuole reintegrare tanta parte di sé all'interno della cultura. È la coscienza di una nazione che esige una riparazione. Pare impossibile che, dopo che si è consolidata l'unità dei luoghi e dei destini, non si sia ancora realizzata l'unità delle coscienze. E l'unità della lingua passa dall'abolizione del discrimine dialettale.
Giacomo Noventa voleva ispirarsi a tre grandi della nostra letteratura (Dante e Petrarca e quel dai Diese Giorni / gà pur scrito in toscan. / Seguo l'esempio) e per lui il dialetto non era un localismo periferico, ma una lingua universale che deve essere compresa da tutti. Nerina Noro, vicentina, con i suoi accenti di passioni, scatti di ribellione, può essere inserita fra i poeti "espressionistici". Una poetica dell'anti-idillio, la sua, che la contraddistingue, come si può notare da questa composizione:
Go fato
'na considerasion:
tuti garia
qualchedun da copare.
Se no ghe fusse
la leie che te condana,
te sentirissi sbarare
da la matina a la sera.
Mi, par primo
'ndaria a spasso
col mitra.
Nerina sa benissimo che il ruolo del poeta ha un peso importante. Spetta a lui il tempo dell'attesa e dell'ascolto, affondare nel male e nello splendore di uomini in cerca del loro riscatto, ritrovarne la speranza, l'umorismo, l'allegria. Scoprire oltre il buio e il nulla, che spesso ci attanagliano, la poesia che è "là dietro". Ritrovare, come Kundera che cita il poeta ceco Jan Skácel - “I poeti non inventano le poesie / la poesia è in qualche posto là dietro / è là da moltissimo tempo / il poeta non fa che scoprirla” - il respiro di un agguato di verità, il suo azzardo, la sua sempre "imperdonabile" (ma anche "immutabile") scommessa.
Trovo straordinario che questa concezione della poesia, e del poeta, sia la stessa di Osip Mandel’štam nel racconto struggente e doloroso che ne fa la moglie Nadezda nel memoir Speranza contro speranza. Il poeta, come il romanziere, non devono inventare: a loro il compito, o per meglio dire "il dono", di scoprire. A Mandel’štam le parole della poesia risuonavano nella mente. Gli arrivavano, lui doveva semplicemente richiamarle, ricondurle a sé. In età staliniana era meglio ricordare piuttosto che lasciare traccia scritta. Del resto, sembra sapesse tutta la Commedia di Dante a memoria.
La poetessa vicentina ha una visione sofferta della vita. A confermare questo il ricorrere dell'aggettivo desfà (disfatto) che, probabilmente, è anche una delle parole dialettali più usate dai Veneti.
La sua produzione poetica è attraversata da un'inquietudine di fondo, ma appaiono anche gli affetti familiari, la simbiosi con la natura, la presenza dei defunti, il legame con la propria città, le tradizioni, il folklore.
Un'interrogazione assidua, mai scontata né conclusa sull'esistenza umana.
Una produzione poetica che è una "tavolozza" tematica variegata e che va oltre la poesia amorosa per aprirsi al sogno, all'irrazionale.
La vose
Sta vose
che gavemo,
el nostro fià
gavìo mai pensà
dove ch'el vada,
quando el corpo
che more
el se destira,
quando la boca
par sempre
la sé sara?
El fià bramoso
de svolare in alto
l'aria el silensio
el ciaparà d'assalto!
I fià s'inmucia
e quando i xe contenti
i ne caressa el viso
par la strada,
co n'arieta lesiera
che ne basa.
Se le vose
barufa scadenà
si n'acorsemo
con vien suso
el vento.
Conosso anca mi
'na vose ciara
in meso a tute!
Me svola 'rente al viso
un respiro, un fià…
la xe la vose
de me papà.
Vicenza
Su le to strade
go reçità
la me vita.
Giorno par giorno
te go fotografà
dentro 'n tei oci.
Te porto con mi
dapartuto, 'n tel sangue.
Ghe xe i me morti
soto sta tera!
'N te la to aria
ghe xe le so vose,
se tuto tase
sento anca el fià.
Dentro al to gnaro
mi trovo tuto:
pianto, speransa,
sogni desfà.
Trovo anca i basi
che go ciapà.
Go infiorà i me morti
Ghe xe un griso 'n te l'aria
'na polvare sotile
che la coerse tuto.
Çènare dei morti.
I xe giorni 'sti qua
ch'i salta fora a solaiarse,
a dar un'ocià
a quei ch'i ga lassà.
Se te vardi coi oci
sensa fodra de parsuto -
i to morti te li vedi
dapartuto.
Sta çènare 'n te l'aria
te vola in gola
la te fa un gropo
che te struca el core.
Piansendo te vien in amente
che te mori,
te va a catarli
e te ghe porti i fiori.
Pòlvare de ala
Go tolto
per morosa 'na farfala.
I so basi
lesieri come un'ala
i se taca
sui me lavri desparà.
Po… sul più belo
La me xola via!
La çerco coi oci
dapartuto.
Chi tole
par morosa 'na farfala
ghe resta:
solo pòlvare de ala.
El stradon de le Rassele
El gera fato
pai morosi desparà.
Che no ga casa,
che no ga stramassi.
'Desso
ghe xe 'na luminaria
che te pol contare
i sassi.
Tacà le piante al scuro
se gera rancurà
e basso 'rente al fiume
parèa che le parole
vegnèsse su, da l'acqua.
Sa go
Sa go un quarto de luna
son come 'na pianta.
Le raise
çerca la so tera,
el çarvelo
el s-ciopo par sbarare.
Voio i basi che vanso!
El fosso pien de foie
par dormire.
Sta pora vita
Sta pora vita, la go spesa male,
pian pian me son ligà co' le cadene,
credeva la fusse un carnevale,
invesse l'è un inferno pien de pene.
Briga e ramènete, sfadiga e struscia
sul più belo, te credi de sponsare
e invesse i te compagna a Santa Lussia!
te poi far de manco de sperare.
I te conta, che ocore star boni,
se te voli 'ndar drito in paradiso,
sonò ghe xe l'inferno coi demoni,
ch'i te buta in pignata come 'l riso.
Go pensà che piutosto de cambiare,
vado a l'inferno a farme cusinare.
Nèvega
Nèvega
sora i vivi
e sora i morti.
'Na man de bianco
a sto luamaro.
Nèvega.
Dio
che ciaro!
'Sta vita
'Na procession che camina,
fata de ani passà,
de quei che vegnarà.
Sarpente pien de colori,
de musi veci e novi.
Speranse, sogni desfà.
Te çerchi sempre…
quel che no te trovi.
Sparisse i musi veci,
nasse i musi novi.
Eccellente pittrice, stupendi alcuni suoi autoritratti: Donna con bibbia (occhi neri intelligenti, pensosa, quasi sovrapensiero: il colore della sua giovane bellezza; Donna con maschera (non è di carnevale: è lei che nasconde i suoi occhi, non vuole essere ferita e ci guarda attraverso la maschera che si è costruita per nascondere la sua interiorità; e allora sovviene alla mente questo: quando i turchi occuparono Bisanzio con le lance cancellarono gli occhi degli affreschi perché lo sguardo è la luce dell’anima).
Davvero un talento, Nerina Noro, artista di una città di provincia, Vicenza, che in fondo non l'ha mai capita. E come spesso succede, si recupera la memoria solo più tardi. Così, due anni dopo la morte, la mostra allestita in Basilica Palladiana al Salone degli Zavatteri - «Nerina Noro (1908-2002) - Il volto e la maschera» - dove finalmente si fecero conoscere le sue opere ad olio e le sue magistrali acqueforti. Un recupero della memoria che ne rivalutò il lavoro pittorico e grafico: coerente e fortemente se stessa, anche dietro i ritratti che non la raffigurano, ma in fondo parlano sempre di lei, del suo vissuto, del suo dolore, del suo essere donna e artista a Vicenza.
Una retrospettiva curata da Giuliano Menato, che cosí la introduce nel catalogo (Agorà Factory editore, con un saggio del poeta Fernando Bandini):
«Nessun artista vicentino della sua generazione - la più ricca di ingegni pittorici del Novecento, la più copiosa di risultati rilevanti - può vantare uno stile inconfondibile come quello di Nerina Noro, particolarmente affinato nel genere del ritratto, ritenuto da tutti il centro dei suoi interessi di donna e della sua ricerca di artista».
Decisamente di carattere sanguigno, uno spirito anticonformista, questa poetessa, pittrice, incisore, insegnante nel vicentino.
Tuti che parla
Tuti che parla de machine
de fèmene, de schei.
E mi me godo
a vardare 'na foia.
'Na foia, che de matina
presto, la sé lustra
scura e imbrilantà.
Man man ch'el çielo
cambia de colore,
la xe n'altra
e n'altra ancora.
Fin che riva la luna
col so slusegamento
de pòlvare de argento.
Tuti che parla de machine
de fèmene, de schei.
Notizia
Nerina Noro è nata il 21 marzo 1908 a San Gallo in Svizzera. Trasferitasi con la famiglia a Vicenza, inizia la propria educazione artistica sotto la guida del padre, Francesco, pittore e perfezionandosi poi all'Accademia di Belle Arti di Venezia sotto la guida di Virgilio Guidi e Bruno Saetti, che la stimava molto.
A Venezia incontra l'amore in Arturo Cussigh (1911-1990), definito in seguito il “pittore dei fiori”, per l’insistenza del tema che compare in moltissime opere ispirate alla bellezza della flora montana, 8che si inserì immediatamente nell’ambiente artistico nazionale frequentando artisti di alto livello come Carrà, Sironi, Soffici, Campigli.
La loro storia finì però in maniera burrascosa, dopo un matrimonio e due figli.
A testimonianza del loro amore - e odio - rimane il ritratto di Nerina, eseguito da Arturo nel 1936. In realtà, quello che è un ritratto di lei, in origine era un doppio ritratto. Determinata nell’eliminare ogni traccia del suo ex marito dalla propria vita, lo cancellò anche dal dipinto che li ritraeva giovani artisti spensierati e innamorati.
Fin da giovane la Noro partecipa a importanti mostre d'arte nazionali: Bevilacqua La Masa (1936), Quadriennale di Napoli (1937), Biennale di Venezia (1938), impiegando le tecniche dell’affresco e una pittura in tonalità calde, con colori soffusi e assonanze della Scuola Romana in cui prendono forma i suoi molti ritratti e un mondo che sconfina nel simbolismo e nell'onirico. Bello che sia potuto accadere questo: che in una delle sue mostre, una serie di incisioni sulle farfalle, sia stata messa in relazione con la collezione di esemplari del figlio Francesco Cussigh, noto e stimato entomologo, dato che proprio per la passione del figlio Nerina include gli insetti nelle sue opere.
Dopo le prime prove in lingua, la sua poesia "coltiverà" il dialetto: nel 1994 esce la raccolta Pòlvare de ala, curata da Giorgio Faggin ed edito da Neri Pozza, che comprende L'otuno xe drio partire (1960), I raionamenti de un imbriago (1985) e una sezione di Poesie inedite.
Nerina Noro ha dialogato con i personaggi più rappresentativi della nostra cultura artistica e letteraria, privilegiando quelli più scomodi e singolari, come Goffredo Parise o lo stesso Neri Pozza.
Muore a San Giovanni in Monte (VI) nel 2002.
Note
¹ Maurizio Casagrande, Matteo Vercesi, Un altro Veneto. Poeti in dialetto fra Novecento e Duemila (Edizioni Cofine, 2014), dove Nerina Noro, tra i 16 poeti antologizzati, è l'unica donna inserita.
Glossario
(in ordine di poesia)
Go fato: ho fatto;
garia: avrebbero;
copare: uccidere
leie: legge;
sbarare: sparare;
'ndaria: andrei.
gavemo: abbiamo;
fià: fiato;
gavìo: avete;
el ciaparà: prenderà;
s'inmucia: si ammucchiano;
ne basa: ci bacia;
scadenà: scatenate;
si n'acorsemo: ce ne accorgiamo;
co vien suso: quando si alza;
'rente: accanto.
le so vose: le loro voci;
gnaro: nido;
desfà: disfatti;
go ciapà: ho preso.
un griso: un grigiore;
coerse (s dolce): copre;
fora: fuori;
a solaiarse: a prendere aria, sole;
n'ocià: un'occhiata;
fodra: fodera;
parsuto (s aspra): prosciutto;
gropo: nodo;
struca: stringe;
Piansendo (s dolce): piangendo;
catarli: trovarli.
Go tolto: ho preso;
basi: baci;
i se taca: si attaccano;
lavri: labbra;
desparà: disperati;
xola (s dolce): vola;
tole: prende.
El stradon de le Rassele: Il viale di Aracoeli;
stramassi: materassi;
Tacà le piante: attaccati alle piante;
se gera rancurà: si era protetti, raccolti;
vegnèsse: salissero.
Sa go: se ho;
raise: radici;
çarvelo: cervello;
s-ciopo: schioppo, fucile;
ca vanso (s aspra): che avanzo;
foie: foglie.
ramènete: arrabattati;
sfadiga: fatica;
strussia: logorati;
sponsare: riposare;
a Santa Lussia: al cimitero;
I te conta: ti raccontano;
pignata: pentola;
cusinare: cucinare.
luamaro: letamaio.
che vegnarà: che verranno;
musi: visi;
Sparisse: spariscono;
nasse: nascono.
schei: soldi;
vardare: guardare;
slusegamento: luccichio.
Nell'immagine di copertina: particolare dell'acquaforte di Nerina Noro "Il sabba delle streghe".