Riccardo Held Poeta Simone Martinello
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Riccardo Held. L'irriverente guizzo dell'azzurro

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Riccardo Held. L'irriverente guizzo dell'azzurro
Lascialo intanto, non levarlo ancora,
trova un altro che sappia le cose 
che non hai detto, metti carta ancora,
piccoli legni e foglie e ogni cosa,
che non si spenga il fuoco, loro sanno
come si fa, da dove viene il vento; [...]
se batte il vento ed è vento di Nord 
che passa liscio e freddo alle pareti 
di casa, ferme e dure come i grani
del tuo rosario, come venature,
di un grande e forte campo di dolore,
che, se non fossi come sono, allora,
direi che sia, che fosse, che sia stato: Amore.¹


Ho conosciuto Riccardo Held sul primo numero di Poesia, l'unico mensile italiano, nel 1988, quando i miei versi dovevano ancora varcare la porta di casa, ma già c'era in me il fuoco della poesia. 

Egli si raccontava – poco più che trentenne – nella rubrica L'autoritratto: «Ho cominciato a scrivere versi nei primi anni di Università a Venezia, dove sono nato nel 1954; scrivere era tentare di ricercare suoni che avevano un effetto rassicurante e in qualche modo sostitutivo di quanto non facevo per l’Università e per il lavoro.»


Secondo Held la poesia dovrebbe essere “metodica”, ovverosia «avere la stessa implacabile sistematicità con cui il grande frullatore dei media si impegna a spianarci la mente.»


Allora mi colpi il sonetto (una forma metrica su cui Held ritornerà spesso) che vi riporto:


Tu trascurato senso e netto inverno

colpiscimi se sai nella giuntura,

prova nel molle, entra nell’interno

dove il legno si cambia in segatura,


gli scaffali nell’ombra e quelli in alto

respinti dove all’indice conviene,

come nel letto il più tenero smalto

incurva dove il caldo si mantiene;


così nell’acqua di scavati porti

stendemmo la tovaglia dell’altare

e, deludendo più superbi torti,


forse il poeta seppe immaginare

epigrafi più belle per i morti,

quelli che sanno ancora camminare.²


Il suo secondo libro - Il guizzo irriverente dell'azzurro (Marsilio, 1995, collana diretta da Giovanni Raboni, quindi una garanzia) con una copertina rosata che ricorda i colori delle case di Venezia - viene definito «esempio fra i più aperti e sottilmente inquietanti di quella sorta di rinascimento della forma che accomuna alcuni dei migliori talenti della nuova poesia italiana.»

Ed è proprio così, perché ad una prima lettura di Held ci si cala all'interno della tradizione della lirica occidentale, che non è un ritornare malinconico e rassicurante a certe strutture codificate, ma un rapporto diretto senza timore con ciò che la poesia ha significato in Europa a partire dai testi provenzali. Punto di forza di questa sua ricerca è il rivelarsi, sullo sfondo, della tradizione continentale soprattutto tedesca (Rilke su tutti). Con l'innesto di autori francesi, inglesi e spagnoli del XVI e XVII secolo, come Garcilaso de la Vega, S. Juan de la Cruz o Quevedo. Non è imitazione, ma il tentativo di dare vita ad una lingua media, che può risultare difficile per le giunture sintattiche - spesso sottoposte l'analogia, allo scatto associativo tra le immagini - ma di sicuro non per la rarità, preziosità o manipolazione del lessico. Anzi.


C'è una scelta di invenzione che si tramuta in idea generale di poesia. Si veda come esempio uno dei componimenti de Il guizzo irriverente dell'azzurro:


Sì lo sappiamo un campo

È come un cimitero senza croci

Dove i pensieri inutili dei morti 

Trionfano mischiandosi alle voci

Ma la lavagna è fitta di silenzio 

Più nero della scia dell'acqua nera 

Della barca di Gaffer nel Tamigi

Con il suo bianco carico notturno. 


Entra dunque il romanzesco: Charles Dickens.

O meglio, quel suo capolavoro che va sotto il nome di Il nostro comune amico. Dove, nelle prime pagine, viene descritto il geometrico movimento della barca, che Gaffer - colui che afferra, un personaggio quindi dal nome "parlante" - orienta secondo la corrente del fiume per recuperare con un suo bastone uncinato i cadaveri trascinati verso il mare.

(Quanta attualità! Come non pensare alla strage dei migranti).

Il poeta veneziano qui elabora l'immagine dello scrittore inglese sviluppando l'opposizione terra/acqua in un gioco di colori che è insieme simbolico e sinestetico, perché la contrapposizione bianco/nero è quella della tradizione che indica il nigrum semen della scrittura, che qui diventa lo strumento per "affogare" le voci dei morti nel silenzio.


Held predilige poesie brevi:


Così si toglie lo spavento al velo

e ogni vanto all'aria

se, cortesia suprema dell'inverno 

in sosta, vige qualche nitidezza 

scritta nel breve addolorato gelo

che è il nostro quieto movimento interno 


Si noti la replicatio sintattica a sorreggere la percussione ritmica e l'omogeneità fonica:


Lo spaVeNTO al velo / e ogni VaNTO all'aria


La poesia di Held fa molto ricorso all'enjambement, i settenari si incuneano negli endecasillabi così che questo autore riesce a innovare le dimensioni tradizionali senza privarsi del quotidiano, privilegiando ciò che lui chiama il respiro del fare poetico. Ovvero la centralità in esso della presenza di una voce che non ha paura di "rimasticare" la nostra lingua.


C'è in questo poeta una oralità come radice fisica della voce, dove il "fiato" non è altro che un risvolto poetico su cui soggiace la concezione materiale della sua scrittura. Ossia l'assunto che l'uomo è contemporaneità, mondanità e storia. Si legga per esempio:


Se non ho mai creduto che fosse vero

che ci fosse dell'altro, una sostanza 

sotto i contorni levigati, bianchi,

la Lingua, l'Ostia, un centro, una coperta,

per farci dire: noi,

chiedo perdono,

per tutte quelle cose che non sono.

Dall'angolo più buio del mio letto,

vedo che il Corpo Santo si trascina,

è come l'Arca sterile, divelta,

sento lo strazio di quel corpo, il peso,

sento che mi somiglia, che domani, 

quel mucchietto svuotato sarà mio,

e vedo l'ombra e non distinguo Dio


Manca la prospettiva salvifica. Il poeta «contrappone l'ipotesi di una diversa salute, che è quella dell'incontro con l'altro, in particolare con quel tu con il quale si è corrisposto il segreto impronunciabile dell'essere finiti, ossia questo fatto famoso, / il fatto luminoso / delle Tenebre (La legge di Outrement, componimento inedito)», scrivono i curatori della bella Antologia Parola plurale (Luca sossella editore, 2005) dove Held è inserito insieme ad altri 63 poeti italiani.


E si continua:


«È questa cura, dunque, il valore specifico della poesia, ma in senso tutto diverso da quello che potrebbe risuonare in un lettore di Heidegger: non si tratta infatti di contrapporre alla dispersione del quotidiano l'assunzione del vivere-per-la-morte, ma nel conseguire la consapevolezza che si è finiti perché si proviene dalla morte, perché cioè al soggetto umano tocca vivere sotto la costellazione del trauma.»


Non è allora un caso se gli scenari di Riccardo Held siano territori gelidi o coperti di nebbia, oppure appartamenti disabitati. Che appaiano traghettamenti infernali o campi attraversati dalla guerra, dove vengono richiamati indifferentemente Dickens o I Sonetti a Orfeo di Rilke, il Macbeth di Shakespeare (con un originale transito verdiano) o, ancora, l'orrore storico del conflitto in Bosnia. Tutti diventano terreno di allegorie per rappresentare la dimensione dove vive l'uomo. Un uomo che ha solo simulacri nella mente che sa bene che la bava nera che lascia sulla carta verrà prima o poi asciugata con un colpo di calco o che di lui non rimarrà nessuna traccia.


Il poeta sa bene che l'opera di scrittura non può assicurare alcun luogo di pienezza, di persistenza. E come lo sa? Lo sa perché, proprio scrivendo, sta apprendendo a non aver paura / della terra vicina dove il buio / deposita per banchi i suoi sigilli.

(Straordinaria questa immagine)

Tuttavia egli sa altrettanto bene di essere sotto l'egida dell'Ombra come del Padre, quando toglie smalto anche al dolore, sotto il segno di quel Nome che non si può eliminare senza far rumore.


La poesia di Held allora ci offre una rappresentazione proprio degli effetti traumatici di quel Nome (il Padre), l'Ombra della morte, che non è altro - cari Lettori - la rappresentazione della vita, meglio di quella "carne" che s'imprime tra le pieghe del cuscino. E che deposita segni di quanti sono venuti prima sui corpi di chi è venuto dopo, e che dopo se ne andrà. Lui, il poeta - mucchietto d'ossa - che lascerà il posto ad altre membra, ad un altro "mucchietto".


Qual è allora la lezione di Held? Se i traumi ci portano, ognuno diversamente, all'angoscia, questi sono anche però la condizione di partenza per mobilitare il "campo". Certo un campo, un terreno, dove si addensano nubi e brume minacciose, ma è pur sempre lo spazio della scrittura e soprattutto della poesia. Spazio dentro il quale la lingua, che si è fatta individuo in una voce, può esprimersi ed articolarsi. È qui si che si colloca, trova linfa vitale, il progetto poetico di Riccardo Held, il quale, recuperando la tradizione della lirica, avanza la sua proposta: una diversa e materiale dimensione della cura. Che si manifesta in una, seppur ironica, nuova convivialità. Convivialità che non è altro che il tentativo, riuscito, di rimasticare il nostro trauma individuale con quello degli altri, dove contrapporre la comunicazione del quotidiano che, come afferma lo stesso autore, oggi sembra solo essere una specie di comando travestito.


Fin dall’apertura del volume, l’uso insistito dell’imperativo (che spesso ritorna nella sua produzione):


Lascialo intanto, non levarlo ancora,

trova altro che sappia quelle cose


ha molteplici funzioni e valenze: è principio costruttivo dell’intero testo, protratto spasmodicamente in un’unica colata sintattica che si scioglierà solo nell’ultimo verso, pure ribattuto fino all’estenuazione ritmica e suggellato dalla rima di chiusura:


direi che sia, che fosse, che sia stato: Amore


Non sfugga nemmeno la maiuscola, già indice di una posa letteraria); è possibile richiamo a certi passaggi luziani (del resto la scena suggerita da Held - metti carta ancora, / piccoli legni e foglie e ogni cosa, / che non si spenga il fuoco - ha un celebre antecedente in Come tu vuoi, in Onore del vero); soprattutto rivela un desiderio di azione che nasce da un latente stato di immobilità, di stasi esistenziale, di dolore: siamo già nel corollario terapeutico implicito nell’atto della ricerca espressiva. 


Vi saluto con questi Appunti di poetica: 


… intorno, intorno a questo 

corpo girando 

di padre amato, e martoriato padre, 

ogni sosta una piaga, una stazione 

della via della croce. 

Una luce si inventa in ogni punto 

perchè c'è troppo buio. 

E lei, e lei, amata quanto 

una gola minuscola, affamata, 

rotta appena la scorza, 

ama furiosamente il nido. 

Lei che è molto, tanto più difficile da dire, 

lei non si lascia non si vuole dire. 

Dimmì ombra piegata, 

Chi era in grembo a chi e per quanto tempo? 

Ombra di madre,

lavata in tutte le acque della pena. 

Gli occhi azzurri di un padre, 

i capelli, la bocca di una madre, 

e per un attimo l'altro e l'una 

ad amarti, a volerti grande, forte 

e poi in un attimo qualcosa, 

certo non rilevante cosa 

che nessuno mai vorrà sapere: 

tutto perduto, via in un soffio, 

perduta la sintassi, 

congiunzioni soltanto, 

irrelate e scomposte, 

tremiti dell'agnello agonizzante 

e tu poi, ogni istante della vita 

a chiederti perchè? cosa è accaduto? 

E cerchi di tenerli dentro insieme, 

stretti in un corpo, 

e poi sapere, 

che nessuno sarà mai grande e forte 

e poi sentire in ogni istante 

farsi forte quella cosa, 

che non ha nome, e poi volere 

volere, volere organizzarsi per sparire.



Note

¹ da L'irriverente guizzo dell'azzurro 

(Marsilio, 1995);

² da Per questa rilassata acida voglia 

(Guanda, 1985)


Notizia


Riccardo Held

È nato nel 1954 a Venezia dove vive.

Consulente editoriale, ha tradotto Balzac, Hugo, Rilke e Benn, Rezvani e Gaston Salvatore (nipote di Salvador Allende).

Ha curato una traduzione di tutti i sonetti di Shakespeare; Fedra di Racine, e il volume dedicato alla poesia di Studi Novecenteschi. Ha partecipato nei Meridiani, alle edizioni di Thomas Mann, Goethe, Celan, Musil. Ha vinto nel 1985 il premio Pasolini con il volume Per questa rilassata acida voglia (Guanda) e nel 1996 il premio internazionale Eugenio Montale con il volume Il guizzo irriverente dell’azzurro (Marsilio). 

Nel 2003 è stato pubblicato a Milano, Lucas, omelia endecasillaba in inglese e francese 

È stato finalista al premio Viareggio e al premio Camaiore con La Paura (Scheiwiller, 2008). Scrive in italiano, lingua materna, ma raddoppia i suoi testi in tedesco, lingua paterna. Alterna il lavoro editoriale con l’attività di “dire” poesia in teatro, in Italia e all’estero. Ha ideato e curato il ciclo “Il bel Rumore” (fino al 2006 all’interno di Progetto Italia), un ciclo di letture teatrali di testi in versi e non. Ha curato nel 2007 e 2008 parte del ciclo “Notturni d’arte a Venezia”. È tra i fondatori di Casa delle parole (Museo Goldoni) e Casa della Musica (Ca’ Rezzonico). Forse c’è qualcosa che non va in quel famoso “frullatore dei media” se il grande pubblico (televisivo o frequentatore di social poco importa) non ha mai sentito parlare di Riccardo Held!