Sandro Zanotto. Pelegrin de aque meschizze che no trova i so santi
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Sandro Zanotto. Pelegrin de aque meschizze che no trova i so santi

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Sandro Zanotto. Pelegrin de aque meschizze che no trova i so santi

Po l'erba nova se schissa drio le schine 
e sa da menta, e sa da bon, 
la tosa sa tuta da verde, da prà,
la luna par in soaza sul sofito 
de sta camara fresca de istà.

Sandro Zanotto è conosciuto per il romanzo Delta di Venere pubblicato da Rusconi nel 1975 (non so poi se sia stato mai più riedito). Straordinario affresco surrealistico e metafisico che ha come protagonista l'ultimo navigatore di acque interne nella Valle Padana, che viaggia ancora con le carte veneziane del '700, alla ricerca di vie d'acqua che il tempo ha abbandonato, ma che recano in sé i segni della storia. L'autore sa raccontare il disastro sociale dell'Italia attraverso un acceso contenuto erotico che, allegoricamente e simbolicamente, si carica di significati dell'esistenza. Si può dire che è un libro "religioso" nel senso pagano del termine.

Una "voce" che meriterebbe di essere ripubblicata, visto l'imperversare di banalità letterarie.


Zanotto esordisce in dialetto come poeta con La fiora del vin, che appare nel 1960 per Amicucci Editori in Padova, in un'edizione fuori commercio. Si era fatto conoscere l'anno precedente attraverso una raccolta di poesie in italiano che, considerando i limiti di un'opera prima, mostrava già i tratti del suo stile successivo: un solido senso del ritmo, modulato sul recitativo. Vi propongo Siroco, che ci cala nell'antico dissidio mai risolto tra giovani e vecchi;


Co cala sto siroco,

sto vento che no sgorla o albare

e el bacaro ghe sbate in tea testa 

a chi se fa la briscola in ostaria,

ze in ste sere

piene de notoli e de caigo dai canali

che i veci se remena pala casa

e no trova sono.

No ze poi conti de la luce

ma pala femena che se mete in pensieri 

e pai tusi che no poe dormire:

e mo con quea pionba de sono

che mucio in te l'uficina 

me toca scoltare la lagna dei veci.

So mi che lori pensa ai canpi 

che ghemo dà in mezzadria,

ala spagneta verde 

col ventesco che rinfresca i pìe

e fa tirare el toscan 

come un musso.

So mi che lori voria 

ca no i ciapa sono

'ndare pai canpi a tendarghe 

e trapoe pae tonpinare 

o meterghe i boconi pae pantegane 

e sbararghe al martoreo 

che fa la tira ai polastri novei. 

E no i capisse che mi so meccanico

e la matina go da 'ndar a laorare. 

Pori veci.

Lori ga vuo pì caro

restar lazò, in mezo ai grepani 

e vedare altro che vache e porsei 

e 'ndar na volta a l'ano in procession,

invesse che stare in te na casa bea

co tuto tomatico come in rioplano.

No i va altro gnanca in ciesa 

parché no i conosse nissuni. 

Propio pecà deventar veci

e vedare i zovini che scanpa 

che no capisse pì so pare.


Nel corso della sua vita Zanotto, saggista, romanziere, critico d'arte, oltre che poeta, ha alternato nella sua poesia l'italiano e il dialetto, utilizzando quest'ultimo dapprima in un verso di tipo realistico-populista, che via via è diventato sempre più onirico e metafisico. Non si può analizzare la sua vasta produzione senza notare che questo autore scriveva anche in italiano, sia in poesia che in prosa, perché i riferimenti e i collegamenti sono davvero tanti.


Le poesie de La fiora del vin nascono dal desiderio di produrre la documentazione letteraria di una lingua che veniva ancora parlata da alcuni anziani in campagna. Le poesie de El dì de la conta, poesie pavane (Scheiwiller, All'insegna del pesce d'oro, 1966) invece, nascono da un interesse antropologico. C'è una continuità di fondo, ma si nota un'evoluzione del tema: gradualmente il mondo rurale diventa metafora; il poeta mostra un interesse filologico che va oltre il folklore. Sono elementi che ricompariranno nelle raccolte successive, insieme al tema dell'acqua, in un paesaggio di acque e isole che diventerà quasi una costante dell'opera di Zanotto. Ecco allora No se ghe pensa mai:


No ghemo mai pensà 

ai bussoloti dei strassoni 

che i fa la coa pala minestra dei frati. 

No ghemo mai pensà 

a queo che passa

cole braghe sopressae 

e i conti desparai in tela scarsea.

Bisognava pensarghe prima

desso ze massa tardi.


La successiva raccolta in dialetto, Aque perse (Luranionuovo ed.) esce solo nel 1985, ma la storia letteraria di Zanotto non si interrompe nel frattempo. Interessato alle avanguardie, che ha esaminato come critico d'arte, è stato influenzato - soprattutto nei romanzi - da quella vena fantastica che sfocerà nel surrealismo; questo fatto permette di sottolineare il legame tra le sue varie opere, al di là del genere e del linguaggio utilizzato.

A partire dal 1985, Zanotto si dedica esclusivamente alla poesia, ad eccezione della sua attività di critico d'arte.


Acque perse contiene poesie che sembrano scritte dal "marinaio solitario" del romanzo Delta di Venere e che per argomento e stile si avvicinano alla raccolta di poesie in italiano Il funzionario testimonia. Notevolmente diversa dai due precedenti libri in dialetto per quanto riguarda la lingua e l'argomento, questa raccolta conserva tuttavia la caratteristica di esprimere stati d'animo attraverso esperienze concrete. In Insoniarsi de aque, dello stesso anno, è ancora possibile trovare prestiti dai suoi romanzi e da altre opere.


L'anno successivo esce Lettere dall'argine sinistro, poesie in italiano che mescolano realtà e sogno, segni e simboli, ricordi e giudizi


Le poesie di Aque perse sono straordinarie, come Cofà un pesse dai fondi:


Sentai tacà na ribolla da tendare 

no se pole scalumare le rive verte

anca se no te voi se va drio na carezà 

sensa cormei da segnarla. Drio ste aque

marse e ferme da senpre. 

Co l'ocio no varda le rive, el cata na facia 

che vien su dal pantasso cofà un pesse

da fondi (ergo age, fallaci timide

confide figurae): no la se vede ben 

ma ghe xe, svelta cofà na scaja 

che salta su l'aqua, co la se ferma

la va sotto e te la perdi

Quei che va, ga el so purgatorio 

senpre distante dai slarghi,

qua in sto palùo de l'anema 

ghe saremo senpre in eterno amen:

chi ga la so fede no xe mai rivà.


[Seduto accanto a una barra di timone da badare / non si possono osservare con attenzione le sponde aperte. / Anche non volendo si segue una carreggiata / senza paracarri che la seguano, dietro queste acque  / puerile e ferme da sempre. / Quando l'occhio non guarda le sponde, trova un volto / che sale dal profondo stomaco come un pesce / che vive nel fondo (ergo age, fallaci timide / confide figurae): non si vede bene / ma c'è, svelto come un sasso piatto / che salta sull'acqua quando si ferma / si immerge e lo perdi. / Quelli che vanno, hanno il loro purgatorio / sempre lontano dai dai luoghi aperti, / qui in questa palude dell'anima / ci saremo sempre in eterno amen: / chi ha la sua fede non è mai arrivato.]


***


[...]

Ma i inbriaghi de note vede

nel scuro soto el cagnaro 

tante robe che parea perse.

Co va soto la luna vien qua soto 

facie de femena, massa

(Haec animi multum signa nocentis habent)

a contarme del mondo delà,

del mondo roverso che go lassà 

no me recordo quando.

Mi qua son rivà alé aleghe che bisega 

cola corentia, ai moventi

de l'aqua cole manovre che screcola 

pian, de note, fin che la luna 

alta fa slusegar el mondo 

e tira fora i spiriti pai cantoni.


***


Il mito di Fetonte che sempre ritorna per chi ama la nostra terra e con la sua bellezza si confronta e si inquieta.


Drio le aque e i arzari de Po

na volta i contava i albari santi,

El salgàro dela golena e la piopa 

cola foja che bagola (populus bagolara)

ancora pal veci robalton de Fetonte:

se ghe riva in barca da Crespin 

propio indove xe cascai zo i cavali del Sol. 


Tosato grando, no go la man

de Canova par farte na statua 

qua su l'arzare: nuantri de ste parti

ghemo pianto smejari de ani par ti,

saltà fora dai pantani de la rassa

cofà un osso de bestia persa drio el tenpo.

Ma I cavali del Sol no li portarò mai,

mi porto solo na tartana, pelegrin 

de aque meschizze che no trova i so santi.


In sto siroco salta fora sula gleba

solo un salgàro tuto magnà dai bissi 

a segnare la me funsion de aqua.


Qua sula gleba no ghe xe santi albari,

no ghe xe ossi de santi pale ciese,

no ghe xe messe grande co candele

pai miracoli che ghe da vegnere.

Qua posso solo 'ndar drento el salgàro,

deventà el me capitelo, a pianzare

el tosato santo cascà a Crespin 

sul Po coi cavali del Sol.


La pubblicazione di Loghi de l'òmo (1988) segna una svolta nella poesia di Zanotto; il poeta non è più né "il marinaio solitario" né "il funzionario" ma, abbandonando ogni ruolo, un uomo, che si esprime in testi più brevi, dalla sintassi meno frammentata, in cui i riferimenti alle opere precedenti sono quasi inesistenti e senza citazioni dotte. Il linguaggio è più semplice e naturale, il lessico più ricco.

"I luoghi dell'uomo" sono quelli che permettono di tornare alle proprie radici, che fanno capire l'importanza della memoria per ricostruire la propria storia personale e la propria identità.

L'ultima raccolta in dialetto di Zanotto, Canton del mondo, è rimasta inedita, tranne alcune poesie pubblicate in Antologia personale (1996). La precedente è Dadrìo del specio, in cui il poeta dà conto della morte irrevocabile e del dialetto attraverso gli oggetti che hanno perso la loro ragione d'essere. Forse più di altre raccolte, affini per atmosfere ai due romanzi, questa raccolta sembra risentire delle suggestioni dell'avanguardia surrealista: in diverse poesie eventi concreti scivolano nell'assurdo, diventano sogni a occhi aperti, simboli.


Scrive Matteo Vercesi:


«Sandro Zanotto ci ha lasciato una preziosa testimonianza di sé in una variante molto particolare del dialetto padovano pur essendo originario di Treviso; una stranezza che lo accomuna al vicentino Eugenio Ferdinando Palmieri che aveva eletto la parlata di Rovigo a proprio codice espressivo. Nell'universo poetico di Zanotto, dominato da ambienti lagunari, argini, bricole, casoni, distese di pioppi e piante di salice, s'impone la metafora dell'acqua (quella del Po, dei canali del Delta o della Laguna, oppure, spesso, acque morte) che vale sia come specchio deformante del reale nel segno di Narciso, sua quale icona della condizione umana nei termini di un perenne divenire alla maniera di Eraclito. [...]

Attenzioni e cure non minori il poeta di Treviso ha sempre riservato alla lingua, una variante del basso padovano, con forti innesti dalle parlate dei litorali fra Lignano e il Polesine (il Delta soprattutto), che si distingue per il colore arcaizzante, la plasticità e la forza evocativa: risorse che avvicinano il dialetto di Zanotto al pagano di Ruzante (e poesie pavane è proprio il sottotitolo di El dì de la conta). Da segnalare, infine, le sue controverse figure femminili sospese tra l'invasamento della baccante, l'incarnazione di Medusa e il fantasma liquido (già Brevini, del resto, aveva focalizzato la poetica dell'acqua in Zanotto attraverso la triade: amnio, eros, morte).»¹


Dal punto di vista stilistico, è interessante notare come Zanotto tenda a creare un ritmo attraverso l'alternanza di sillabe sottolineate e non. Da Insoniarsi de aque in poi, appare una struttura interna, una nuova forma chiusa, basata sulla ripetizione regolare del numero di accenti ritmici in un verso.

Nei suoi oltre vent'anni di scrittura poetica, Zanotto ha dimostrato di aver acquisito e mantenuto quasi subito una solida padronanza del ritmo; dopo di lui, altri poeti che scrivono in dialetto veneto seguiranno il criterio dei piedi metrici, elemento fondamentale della voce di questo poeta.


Concludo con una poesia del suo esordio La fiora del vin:


I se speta fora dai cancei i morosi poareti,

coa bricicleta a man, zo dal marciapìe,

senpre in mezo ala zente che i spentona. 

I speta che vegna scuro,

ze sabo e la tosa poe tornare casa dopo

                                               [l'Ave Maria 

i speta la sera sui arzari,

col vento che sbrega la luna sui canai,

sentai rente sensa tocarse, 

i speta la sera co ga finio de passare i omeni 

                                              [de l'uficina,

coi ciari inpissai dee briciclete. 

Po l'erba nova se schissa drio le schine 

e sa da menta, e sa da bon, 

la tosa sa tuta da verde, da prà,

la luna par in soaza sul sofito 

de sta camara fresca de istà.

Ma su pì beo passa quei recioni de l'ostaria,

i te da ciaro coi fanai dee briciclete,

i te siga drio, i te e brazote,

co no e riva è gaffe che te dà la multa. 

No ghe comoda che se fassa l'amore

                                              [pai arzari

anca se tuti ghe va a tardire. 

Pori morosi sensa camara 

che pecà poareti!

Ah, co l'otomobile, che ben che se 'ndaria,

co na camara fresca coi scuri 

co na ciave da sarare e nissuni che passa!


Sandro Zanotto (Treviso, 1932-Padova, 1996) è una figura culturale di tutto rispetto nel panorama letterario nazionale. Meriterebbe più considerazione. Vedrei bene un Meridiano della sua opera, in passato sono stati pubblicati autori non certo alla sua altezza. Lo dico con grande convinzione. 

Oltre ai libri citati nell'andare di questo scritto vanno assolutamente ricordati: Proverbi pavani (Scheiwiller, 1967); la sua partecipazione alle antologie Il fiore della lirica veneziana a cura di Manlio Dazzi (Neri Pozza) e Le parole di legno a cura di Mario Chiesa e Giovanni Tesio. Al dialetto ha alternato poesie in lingua: Basso orizzonte (Amicucci, 1959) con una prefazione di Giorgio Caproni; Il funzionario testimonia (Scheiwiller, 1975) con prefazione di André Pievre de Mandiargues. 

Le lettere dall'argine sinistro contengono i disegni di Orfeo Tamburi per l'editore Piovan (1986).

Come narratore ha poi pubblicato La Venere di Buttini (1980) in coedizione tra Scheiwiller di Milano e Pantarei di Lugano, un diario anarchino ambientato a Carrara. Per Vallecchi è uscito nel 1984 Adone, ambientato a Padova. 

Nella critica d'arte assume particolare rilievo il suo lavoro di raccogliere e pubblicare gli scritti di Filippo De Pisis, con numerosi volumi nelle preziose Longanesi, Einaudi e Scheiwiller. 

Ha vinto diversi premi e ha collaborato con Il Gazzettino con elzeviri, articoli di paesaggio e note critiche.


Note

¹ Maurizio Casagrande e Matteo Vercesi,

Un altro Veneto. Poeti in dialetto tra Novecento e Duemila (Edizioni Cofine, 2014).


Glossario 


Soaza, cornice;

Sgorla, scuote;

Bacaro, vino duro o scadente;

Notoli, pipistrelli;

Caigo, nebbia;

Remena, rigira;

Tusi, giovani, ragazzi;

Pionba, sonno pesante;

Mucio, accumulo;

Musso, asino;

Ciapa, prendono;

Tonpinare, talpe;

Pantegane, ratti;

Martoreo, martora;

Lazò, laggiù;

In mezo ai grepani, in località selvagge;

Porsei, maiali;

Bussoloti, barattoli di latta;

Strassoni, straccioni;

Scarsea, tasca;

Aleghe, alghe;

Bisega, cerca, fruga;

Slusegar, luccicare;

Salgàro, salice;

Piopa, pioppo;

Robalton, ribaltone;

Bissi, insetti;

Sarare, chiudere.


Espressioni in latino


Haec animi multum signa nocentis habent

Questi atteggiamenti hanno molti segni di colpa (Quintiliano).