Toh: Donato Carrisi fa anche il regista. Ma sarà bravo? E perché si è messo dietro la macchina da presa? E può essere considerato un “giovane regista italiano”. Leggete questa sesta puntata del percorso a cui Elena Cardillo ci ha ormai abituato, e capirete.
L’atmosfera dà l’idea di qualcosa di pastoso. C’è il caldo umido di un’estate insopportabile, ci sono luoghi imprecisi, identità vaghe, piani di realtà che vanno e vengono a intermittenza.
Un’indeterminatezza insistente aleggia su ogni cosa e costringe lo sguardo a muoversi incerto.
Così ti accoglie L’uomo del labirinto, ultimo film di Donato Carrisi, tratto dal suo omonimo romanzo.

Dentro un magma corposo
L’autore intriga e disorienta. È a suo agio con le parole, ha il piglio di chi sa indagare, l’animo la realtà l’imperscrutabile. Dire se sia più scrittore o produttore di storie in movimento è difficile, che poi, in fondo, sempre immagini sono, e in ogni caso le due attività si fanno eco.
Il suo primo romanzo, Il suggeritore, è del 2009 e ha vinto il Premio Bancarella. Da lì, una serie di best-seller. Prima ancora, nel 2001, ha iniziato a realizzare fiction per la televisione, e scivolando indietro pièce teatrali. Scrive regolarmente per il Corriere della Sera, insegna allo IULM.
Al cinema invece ci è arrivato da poco, nel 2017, con La ragazza nella nebbia – altro suo romanzo – per il quale ha vinto il David di Donatello come miglior regista esordiente.
Il fil rouge, o noir, è lo sfondo thriller. Un magma corposo dove Donato Carrisi è a suo agio, per via degli studi di giurisprudenza e della specializzazione in criminologia.
Dunque, sa indagare.
Bisogna entrare però in una specie di mondo che sta al confine. Perché nel genere noir, non solo nulla è ordinario, ma ogni cosa è spinta ad un limite che siamo invitati a superare o, se non altro, a guardare pericolosamente da vicino. Come quando si sta all’orlo di un burrone, si guarda un po’ giù un po’ lontano, e così facendo arriva una specie di vertigine attraente.
Sulla trasposizione
I film, dunque. Come regista cinematografico Carrisi ha all’attivo due titoli, da due romanzi di successo che affascinano i lettori, forse non allo stesso modo gli spettatori.
È interessante osservare l’operazione sempre fluttuante e imprevedibile della trasposizione. Dove, in questo caso, a farla e a controllarla è l’autore stesso.
Un passaggio difficile dal libro al film.
Come detto e ridetto, ci vuole uno scarto, la consapevolezza che il piano narrativo cambia e lo fa in modo repentino. Tanto che si è fedeli al testo attraverso una grande e amorevole infedeltà.
Donato Carrisi lo sa molto bene. Forse per la sua esperienza di scrittore, sceneggiatore, regista. E forse anche per la formazione calibrata sull’indagine e sull’imperscrutabile.
A pensarci bene, nel genere noir come lo intende lui l’indeterminato si presta a tante rappresentazioni. Le atmosfere vaghe, quasi sospese da tempo e luogo che aleggiano nei romanzi, le ritroviamo intere dentro i film. Solo che non è la parola a tenerci, o meglio, lo è in parte.
Sono l’inquadratura e il montaggio. L’alfabeto e la sequenza delle parole.
Qualcosa di elegante e lievemente sofisticato ci riempie. E distrae. Ci aiuta anche a venirne a capo. Perché gli intrecci di Carrisi non sono semplici né scontati. Qui la differenza tra un buon thriller e uno mediocre. Tanto più che il genere deve piacere, acchiappare, tenere.I romanzi avvincono. I film disorientano. Entrambi dipanano la trama, ma evocano – per volontà dell’autore – luoghi dove non potremo mai arrivare veramente. Lo scarto tra le due dimensioni, scritta e visiva, perciò, diventa tutto narrativo.

Quelli di mestiere
Saper raccontare. Ogni strumento ha le sue regole. Lo scrittore è solo – finché non intervengono gli editor – il regista no, mai. Partire dalla solitudine della parola può essere un grande vantaggio per un narratore che traduce in immagini la sua storia. Anche qui però c’è uno scarto, quello delle competenze, di un’attività che da solitaria si fa corale. E per muoversi nel cinema Carrisi ha preso le misure e si è circondato di professionisti.
Gli attori. Toni Servillo, in entrambi i film. Jean Reno per La ragazza nella nebbia, insieme ad Alessio Boni, Greta Scacchi e Michela Cescon, brava e convincente, nelle prove piccole e in quelle più consistenti. Dustin Hoffman per L’uomo del labirinto, e poi la giovane Valentina Bellè e Vinicio Marchioni.
Il montaggio, grammatica fondamentale, è di Massimo Quaglia. Lo cito volentieri. Un professionista di grande mestiere, prediletto da Giuseppe Tornatore, ha montato entrambi i film di Carrisi. Il montaggio è la trama invisibile e indispensabile che ci sospinge e orienta. Massimo Quaglia ha l’arte della fluidità.
Sconfinare
Posto che la narrazione è quasi sempre tutto, Donato Carrisi è un narratore. Fino ad ora si è mosso a casa sua, nei territori ben conosciuti e controllati dei suoi romanzi.
Sarebbe avvincente vederlo sconfinare in terre straniere. Lontano dall’approdo sicuro dei suoi intrecci.
In mano, solo una macchia da presa e il suo sguardo indagatore.
Nel frattempo è uscito per Longanesi il suo nuovo romanzo, La casa delle voci.

Al cinema e altrove
Elena Cardillo è appassionata di cinema e parole. In effetti i suoi studi sono stati di giornalismo e immagini in movimento. Di cinema si occupa nel suo lavoro, mettendoci ogni tanto anche qualche parola scritta.