Siamo arrivati alla fine (anche se non è detto finisca qui). Elena Cardillo ci ha raccontato dieci giovani registi italiani da tenere d’occhio. Lo ha fatto con una scrittura tersa e profonda, spiegando e argomentando. Tutti questi articoli li trovate nel nostro archivio. Costituiscono una guida preziosa e sapiente sul più recente cinema italiano e i suoi protagonisti. Ma intanto godetevi quest’ultimo pezzo, dedicato alla brava Laura Bispuri.
Due lungometraggi, Vergine giurata nel 2015, Figlia mia nel 2018, entrambi in concorso al Festival di Berlino. Vari premi internazionali, al Tribeca Film Festival, ai Globi d’oro, più un David di Donatello per il corto Passing Time nel 2010 e un Nastro d’argento per Biondina nel 2011.
Laura Bispuri è nel panorama del cinema italiano un vento marino. Bisogna leggerne un po’ i segni e aspettarsi mutevoli rinforzi.I suoi due film sono uno sguardo tutto femminile sulle donne. La loro forza nascosta, i mille volti, le incertezze, la durata.
Hana e la legge del Kanun

Vergine giurata è la storia di Hana, figlia del paesaggio brullo e aspro d’Albania. Lì, tra monti e spianate vige ancora la legge arcaica del Kanun che riconosce agli uomini un diritto universale, l’imposizione di un dominio che decide di vita e morte delle donne. Questa stessa legge permette a una donna di giurare verginità e vivere da quel momento in poi come un uomo.
La storia di Hana che diventa Mark è la storia di una donna che nega se stessa per essere libera.
Il film è ariosamente ispirato all’omonimo romanzo della scrittrice e giornalista albanese Elvira Dones (Feltrinelli, 2007).
Il lavoro crudo e delicato della regista sul personaggio di Hana/Mark è il cuore del film. Ed è una lenta faticosa rinascita affidata all’attrice Alba Rohrwacher, duttile, plastica, multiforme, sfuggente.
Laura Bispuri nelle note di regia: “Ho scelto di raccontare il percorso di un essere umano profondamente diviso, assumendo tale complessità come punto d’ingresso nella storia stessa. Con Hana/Mark passiamo costantemente la linea di una doppia identità. […] Ho lavorato per sottrazione, più che per addizione, scegliendo sempre un punto di vista specifico della macchina da presa, cercando di usare la forza di quell’angolo specifico. Volevo che fosse la poesia ad accompagnare la visione della storia; una poesia ruvida ma capace di commuovere”.
Molteplici, determinate

Questo sguardo sulla fatica di emergere da una mutilazione, fa eco al femminile steso sopra un’altra terra brulla e ostica, la Sardegna.
Figlia mia racconta tre donne unite, conflittuali, complementari. Due madri per una figlia. Ma i ruoli a tratti sembrano intercambiabili. Qui la terra, più che espellere le sue creature ribelli, le accoglie e nutre, anche se con fatica e lentezza.
Angelica, Tina e Vittoria sono madre naturale, quella adottiva e figlia. Il viaggio è fatto per scoprire una possibile coesistenza. Con Alba Rohrwacher troviamo Valeria Golino e la piccola Sara Casu, un’elfa della brughiera.
“Mi sono chiesta cosa voglia dire essere madre oggi; se sia possibile crescere con più figure materne di riferimento; se sia più importante il legame fisico con chi ti porta in pancia, ti fa nascere e ti assomiglia o il legame culturale con chi ti cresce”, annota la regista.
Ne esce un dipinto multiforme, in divenire, di tre donne diverse per età e spirito, che si reggono l’un l’altra per via di una fragilità determinata.
Più che annullarsi a vicenda devono accettarsi, darsi spazio.
La grammatica della luce
Fa riflettere questo cinema intimo e corale insieme. Un modo di raccontare che si affida ad un attento taglio di sceneggiatura e all’istinto, un margine imprevedibile tutto femminile che libera la macchina da presa come fossero occhi mai appagati.
C’è il lavoro sulle inquadrature e sulla luce. Anche loro grammatica fine e necessaria.
Soprattutto la luce determina. Cerulea, muta, crepuscolare in Vergine giurata; abbacinante, calda, diffusa in Figlia mia. La luce definisce il senso della storia, soprattutto determina i personaggi, le loro aperture e chiusure, i temperamenti, le necessità.
In questa composizione plastica Laura Bispuri si affida alla sapiente fotografia di Vladan Radovic. In lui riecheggia la preziosa lezione di Giuseppe Rotunno.
Semmai un inizio
Vale la pena soffermarsi su uno stile narrativo che non impone e non taglia con l’accetta, né le storie né i personaggi. Non è un cinema di genere, non è compiuto, intravedendo in questo un valore. Semmai un inizio e una via aperta. Speriamo.
Intanto Laura Bispuri ha iniziato la lavorazione di un nuovo film: Di lotta e d’amore.

Al cinema e altrove
Elena Cardillo è appassionata di cinema e parole. In effetti i suoi studi sono stati di giornalismo e immagini in movimento. Di cinema si occupa nel suo lavoro, mettendoci ogni tanto anche qualche parola scritta.