Ho finito di rileggere il bellissimo “La classe degli altri” di Michela Fregona e la prima cosa che provo, l’emozione più forte, è un senso di gratitudine, profondo.
Leggo sempre due volte i libri che mi piacciono: mi aiuta a capire quello che c’è dentro la scrittura, come se fosse un tessuto di cui apprezzo prima la trama e poi l’ordito.
Ma se mi limitassi a dire “mi piace” esprimerei un giudizio riduttivo, soggettivo e ingeneroso rispetto a un’opera che ha spessore e dignità che vanno ben oltre le mie opinioni personali.
Michela ha imparato a lavorare le parole come se fossero roccia delle sue montagne, le scolpisce senza concessioni alle mode e alle convenienze, lascia tutti gli spigoli che servono, e sono taglienti. Sono parole-pietre che rotolano come valanghe dai monti che fanno quinta alla narrazione, e ci schiacciano alle nostre responsabilità, ai nostri errori, alle nostre mediocrità. L’esperienza didattica si snoda in un difficile equilibrio dove i ruoli di chi da e chi riceve si invertono continuamente, dove chi è ufficialmente l’insegnante sceglie prima di tutto di interrogarsi su quale sia l’essenza del suo ruolo in un contesto tanto singolare, su quale possa essere il metodo, se c’è, per accogliere un’umanità difficile, cui spesso sono negati non solo i diritti ma anche gli strumenti per tentare l’integrazione. Le pennellate con cui sono ritratti i personaggi possono apparire impietose, ma sono in realtà la sola chiave etica per entrare in relazione con un mondo che ha bisogno di essere compreso e letto nella sua ruvida complessità, senza mediazioni sentimentalistiche.
Michela è il macchinista di un cargo male in arnese che naviga su una rotta approssimativa, lei è giù che suda e fatica in sala macchine con i motori che pestano come cannoni: comunicare è difficile nel rumore di fondo e nella babele di linguaggi, di imprecazioni, di citazioni scolastiche, di scoppi di risa… mentre il comandante resta in plancia e si guarda bene dallo scendere a sporcarsi il blazer dai bottoni dorati.
Ma nonostante tutto il cargo arriverà in porto, con il suo carico di persone, diverse, contraddittorie eppure preziose e solo allora il macchinista potrà risalire un attimo, per respirare e guardare il cielo. Grazie Michela.

L’ESTUARIO DEL PO. Cronache non necessariamente conformiste. Mario Bellettato è nato ad Adria nel 1956. Dopo gli studi classici e la laurea in giurisprudenza ha intrapreso una carriera manageriale che lo ha portato a lunghe permanenze all’estero. Ha lavorato come copywriter per alcune agenzie di pubblicità e si è occupato di formazione per l’Unione Europea. Ha pubblicato i romanzi “Il sognatore” (2015) e “Due perle” (2020).