Mi è venuto spontaneo andarmi a rileggere Cibotto, a poche settimane dalla sua morte, come alternativa all’esercizio di retorica funebre. D’istinto ho scelto di partire da “La coda del parroco”.

E’ la sua opera seconda, che nel 1958 diede scandalo, tanto da costringere il povero Cibotto a ritirare le copie dalle librerie, dato che la canea moralista stava colpendo la carriera politica del padre. Ne ho recuperato copia della prima edizione (evviva Ebay!), in cui il collezionista aveva archiviato una certa quantità di recensioni ed articoli, utili per ricostruire anche le reazioni sdegnate dell’epoca.

A pensarci bene, lo strepito corale dell’italietta bene democristiana contro un libro (probabilmente alimentato per attaccare il padre) descrive quegli anni meglio di quanto avrebbe potuto fare Cibotto. Il “cantore del Polesine” pare andasse bene finché narrava con piglio neorealista la tragedia del 1951 nelle “Cronache dell’alluvione” (in cui pure non risparmiava di esprimere il suo senso civico e morale con parole molto nette), ma risultò meno gradito quando iniziò a raccontare d’altro.

Nei sei racconti messi in fila da Cibotto, con grande audacia si racconta di una serata godereccia a Roma, in compagnia di un gruppo di omosessuali, decisamente disinibiti (“Amatori d’anime”), di un vagabondaggio notturno per Napoli (“Come ho visto l’alba”) in cerca di una camera d’albergo che non si trova, per finire a cercare alloggio dalle prostitute, seppure con l’intento di non consumare (l’esito, però, sarà di tutt’altro tipo), o ancora dei bagordi estivi di un gruppo di amici a Ferrara (“Le notti di provincia”), tra molestie alle ragazze in un dancing, capatina in un bordello e scazzottata in un locale.

Il racconto che dà il titolo alla raccolta e che la conclude è una lunga odissea con il protagonista bambino, in gita parrocchiale alla basilica di Sant’Antonio a Padova, tra varie peripezie (il caos nella basilica, l’ingresso nel cimitero ebraico, lo smarrimento per la città), per concludersi con la partecipazione per nulla entusiasta ad una marcia fascista a Monselice per l’esaltazione dell’Impero.

La Chiesa è al centro anche del racconto “Quando i ladri vanno in cielo”: qui ritroviamo il Cibotto attivo per gli altri (come lo ricordavamo nelle “Cronache”), mentre si dà da fare con alcuni amici, raccogliendo offerte da destinare ai poveri della città. Ma entrerà in conflitto con un prete, intenzionato a dirottare sulla propria parrocchia le donazioni, con obiettivi molto meno caritatevoli.

“L’uomo del rimorchiatore”, ambientato in un Delta del Po nebbioso e torvo (che evoca lo scenario del successivo “Scano Boa”), qui mette in scena principalmente la cattiveria della gente di paese, in questo caso nei confronti di una donna innamorata e fedifraga. Una storia durissima ed emozionante.

I sei racconti hanno un elemento comune: sono scritti meravigliosamente. La scrittura di Cibotto in alcuni punti invita a fermarsi, compiacersi e complimentarsi per la scelta e le immagini retoriche. E tanto basterebbe per bollare le polemiche sui contenuti come frutto di ignoranza e malafede.

Un Cibotto “pulp” nei contenuti ed elevatissimo nella scrittura. Per me, sfogliare questo libro è stato un toccasana e mi ha ricordato perché adoro quasi ogni cosa abbia letto di questo mio (ormai ex) concittadino. Di giovani (scrittori e non solo) capaci di dare scandalo abbiamo sempre un disperato bisogno.

(La foto è tratta dall’edizione 1958 de “La coda del parroco”)

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