La virtù serve a poco, Laura l’aveva imparato: aveva detto “sì” ormai troppe volte e non ne aveva ricavato nulla. Aveva iniziato da bambina, accettando le imposizioni di sua madre, già vecchia a 40 anni e preoccupata del giudizio degli altri al punto che a tratti sembrava quasi invidiosa della bellezza e delle opportunità che la figlia avrebbe potuto cogliere e che invece a lei erano state negate. Poi i compromessi durante l’interminabile fidanzamento con Fabrizio, il buon partito, il fidanzato preoccupato per la casa, per il lavoro, per la tranquillità economica. L’uomo con cui fare l’amore era come guardare un film già visto. Poi quel marito entrato all’improvviso nella sua vita, un tedesco conosciuto in vacanza. Uwe, l’artista di Karlsruhe, che l’aveva portata con sé in quella città fredda e nebbiosa, a vivere in un appartamento al quarto piano dell’Alterweg, senza ascensore, con le borse della spesa che diventavano macigni, tranne le volte che, accadeva spesso, erano quasi vuote perché mancavano i soldi. Lei si era adattata al primo lavoro che le offrirono, perché lui potesse continuare a recitare. Non si può pretendere che gli artisti si preoccupino del denaro: è chiedere troppo.
Tutti avevano diritti, tutti avevano qualcosa che li giustificava, tutti andavano compresi, perdonati. Tranne lei.
Lei doveva solo tirare il carretto, accettare tutto, come se la sua vita, il suo esistere avesse una sola funzione: accontentare gli altri, servire alla loro felicità.
Con i genitori aveva tagliato i ponti quando aveva lasciato Fabrizio, in paese tutti avevano commentato quel rifiuto inspiegabile. I suoceri non l’avevano mai accettata: un’italiana che parlava male il tedesco e lavorava alla mensa della Siemens, senza prospettive di carriera.
Un lavoro di merda, vero, che le aveva reso le dita tozze come i würstel che metteva nei vassoi e che giorno dopo giorno le appesantiva fianchi e gambe.
Uwe voleva un figlio, si aspettava che Laura dicesse ancora una volta “sì”, si gonfiasse e vomitasse 9 mesi di fila per dargli un bambino. Un figlio del quale lui avrebbe guardato con soddisfazione i disegni e i voti sul quaderno, tutto il resto sarebbe toccato a lei. Su e giù per le scale di quel palazzo, avanti e indietro con i vassoi della mensa, in ginocchio a passare il pavimento del bagno.
Laura prese un foglio, senza pensare tolse il cappuccio al pennarello e scrisse “NO!”, in grande, con un punto esclamativo.
Buttò nel trolley le sue quattro cose, si truccò, indossò il completo elegante che iniziava ad andarle un po’ stretto e scese. Passò in banca e ritirò quasi tutto il denaro, fece un cenno a un taxi che si fermò.
Il pakistano scese, aprì il baule e con una parvenza di cortesia sistemò la valigia sulla moquette.
“Dove andiamo?” lo chiese dondolando la testa, come fanno gli orientali:
“In paradiso… c’è un treno in stazione che mi aspetta”.

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