Liana Isipato recensisce “Timidezza e dignità” di Dag Solstad, Iperborea, 2010.

Non conoscevo questo importante autore, incontrato grazie allo scrittore Angelo Ferracuti, che mi ha invitata a vedere un suo podcast, “Giorni norvegesi” in cui dialoga con Solstad. Ho subito acquistato, e letto in due pomeriggi, Timidezza e dignità. Un libro di quelli che ti spiace finire, e che poi ti resta dentro, a lungo.

Conosciamo il protagonista, Elias Rukla, cinquantenne professore di liceo a Oslo, mentre, durante una lezione su Ibsen, avverte nella classe l’indifferenza ai suoi tentativi di trasmettere la passione per la letteratura. La frustrazione accumulata negli ultimi anni di insegnamento -professione pure da lui scelta e amata- lo porta, in un piovoso lunedì mattina, all’uscita da scuola, a un’esplosione di violenza contro il suo ombrello, che non si vuole aprire, davanti agli sguardi attoniti di studenti usciti dall’aula per l’intervallo.
Su questo episodio si innesta il resto della narrazione, attraverso il recupero del passato di Elias, che ci viene offerto con una scelta stilistica originale, fusione dell’occhio esterno del narratore e della profonda meditazione interiore del protagonista.
Ci sorprende, a questo punto, sapere che la moglie dalla quale nell’incipit si congeda in un saluto reciprocamente convenzionale e stanco, era stata la sua grande passione giovanile: Eva Linde, l’eletta, quasi irrealmente bella, sposata solo otto anni dopo averla conosciuta, perché prima era la donna del suo più grande amico, Johan Corneliussen, filosofo kantiano-marxista, di grande fascino, adorato da colleghi e studenti.
Forse proprio nella descrizione dell’amicizia tra Elias e Johan, il primo rapito del secondo, grato di essere divenuto importante ai suoi occhi, cogliamo la finezza di Solstad nell’analizzare i sentimenti e la loro ‘cristallizzazione’. Dopo qualche anno Johan decide bruscamente di mettere la sua ‘filosofia’ al servizio dei sogni americani e, lasciata moglie e figlia, la piccola Camilla, lavorerà per qualche agenzia pubblicitaria di New York. Non prima di aver ‘consegnato’ le due donne a Elias.

Si definisce così uno dei temi pilastro di questo romanzo: il tradimento, qui incarnato da Johan, di molti intellettuali di sinistra; la liquefazione ideologica del comune sentire, volto a un mondo nuovo e più giusto.
Eva e Camilla si trasferiscono nell’appartamento di Elias, esterrefatto davanti a tutta quella felicità che così improvvisamente gli era toccata. Nella convivenza, trasformatasi due anni dopo in matrimonio, Elias assapora il mistero di avere accanto, per la prima volta quotidianamente, l’oggetto del suo amore.
Da qui, il secondo pilastro del romanzo, vere e proprie ‘scene da un matrimonio’: la complessità della vita a due, il non detto, i contrasti, la disperazione e la solitudine interiore, negli anni, di fronte a una donna enigmatica che non gli aveva mai aperto la porta al suo io più profondo, e che nemmeno aveva concesso a lui di entrare con il suo io più profondo.

Nello scorrere delle pagine, il senso di solitudine ed estraneità si focalizza nella sensazione di essere socialmente fuori gioco. La sconfitta personale di Elias, la sua sofferenza culturale e sociale, diventa simbolo della scomparsa, nel nostro mondo recente, della centralità dell’intellettuale ‘funzionale’, soppiantata dai personaggi di successo, di maggior visibilità. Elias è il figlio di un’epoca tramontata e nel suo flusso di coscienza emerge, dolorosa, l’impossibilità di avere delle corrispondenze.
Ora, dopo che la figlia di Eva, Camilla, aveva lasciato l’appartamento, erano rimasti loro due. Eva aveva cambiato lavoro, rivelava aspetti caratteriali inediti…si muovevano forse ognuno nel proprio universo ma nello stesso appartamento…passando uno accanto all’altra ognuno nella propria orbita, senza che la presenza dell’altro risultasse un’intrusione o un disturbo o qualcosa di sgradevole.
A tutto questo, pensava Elias, con la mano insanguinata dalle stecche dell’ombrello, mentre vagava senza direzione, nella pioggia che scendeva fine…

Molto, ci dice Solstad, dall’alto del suo castello letterario sontuoso e necessario, fatto di incisi, con periodi a volte lunghi, senza divisione in capitoli. Un’architettura complessa e appetitosa, che contiene spunti simpatici, brillanti, provocatori. E che ci fa pensare.

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