Il paradosso consumista è l’elemento che meglio descrive e caratterizza la società occidentale. L’imperativo etico fondamentale che ci guida è l’obbligo a ridurre tutto, cose, animali, persone e addirittura l’intero pianeta ad una sorta di “quid fruibile”, da consumare anche a costo di distruggerlo, perché solo così siamo costretti ad acquistare di nuovo beni o servizi, magari gli stessi. Tutto ciò che non siamo costretti a consumare o quello che possiamo semplicemente rammentare è rigorosamente escluso, non conta… come un libro che si può rileggere senza doverlo ricomprare. La realtà che ci circonda (quello che i filosofi chiamavano “fenomenologia”) viene concepita come qualcosa che esiste ed entra in relazione con noi solo in termini di consumo.

Siamo affascinati da Venezia, ma non siamo disposti a considerarla una realtà a se stante, degna di rispetto e tutela: essa esiste solo se possiamo consumarla, magari vederla di sfuggita, passeggiando 10 minuti in piazza San Marco o bevendo un caffè al Quadri. E’ comodo andarci con il transatlantico, così magari con una crociera unica possiamo “consumare” anche Atene o Il Cairo, una triade che in questa accezione cessa di essere un elenco di città e genti meravigliose per trasformarsi in qualcosa di osceno, bulimico, stupido come il tris di primi dei matrimoni di terz’ordine. E se la nave sbandasse e distruggesse parte della città? Poco male: se l’abbiamo già “consumata”, può anche sparire, come una giacca fuori moda che non mettiamo più. Ormai siamo in grado di concepire solo rapporti, relazioni o sentimenti che trovano il loro paradigma nel consumare, nel possesso o nella banalizzazione del potere. I partner diventano un elemento/complemento delle nostre esistenze già programmate, consumiamo anche loro e quando diventano vecchi, fuori moda, inadeguati secondo canoni estetico-comportamentali mostruosi, li sostituiamo con l’ultimo modello. Il soggetto che detiene il potere economico, che spesso ma non sempre è il maschio, decide e talvolta impone le sue decisioni, e le misure che abbiamo saputo elaborare in questo deserto emotivo sono così inadeguate da risultare tragicomiche, come la chirurgia estetica o gli alimenti per il coniuge divorziato.

E gli animali? Gli alberi? Gli altri viventi? Un incubo che sembra un circo Barnum mal digerito. Orsi re-introdotti sulle Alpi ma destinati ad essere ri-abbattuti se mettono a rischio la sagra del canederlo o la raccolta funghi dell’imbecille di turno, per non parlare dell’abitudine di cibarsi di pecore … ma Piero Angela non aveva detto che mangiano bacche? Boschi eliminati per fare spazio alle villette a schiera, coltivazioni intensive di prodotti agricoli avvelenati e geneticamente modificati, meglio morire a stomaco pieno. Milioni di animali che chiedono solo di vivere con dignità e ne hanno diritto quanto noi, sacrificati alla soia, alle bottiglie di minerale usa e getta, alla climatizzazione antisettica di case, auto e uffici. Distruggiamo ciò che ipocritamente diciamo di amare, come bambini stupidi e immaturi. Preferiamo il centro commerciale al tempio di Hera a Selinunte, c’è l’aria condizionata e il Mc Donald con i panini di Joe Bastianich: vuoi mettere?

Una risposta

  1. Egregio dottor Bellettato,
    ho letto col solito profondo interesse il suo articolo. Tutto giusto.
    Mi permetto solo di stendere un appunto su due fenomeni il cui danno è incalcolabile:
    – la pubblicità
    – la tecnica della obsolescenza programmata.
    La pubblicità, che potrebbe essere un potente strumento di educazione delle masse popolari e non solo, è in effetti lo strumento che rappresenta “la prima imposta diretta”…”che uccide ogni attività intellettuale e cittadina lasciando vivere nell’individuo i soli riflessi del consumo, come i cani di Pavlov. Dubbio, pensiero, interesse pubblico, senso collettivo e solidarietà, tutto viene spazzato via in quanto ostacolo al pensiero unico: acquistare.”
    Nel 2015 la spesa pubblicitaria globale si è attestata su circa 545 miliardi di dollari. Una cifra tanto spaventosa quanto irrazionale. Si tenga anche conto del fatto che “il secolare aumento delle spese pubblicitarie è un sintomo del secolare declino della concorrenza dei prezzi”; cioè: per colpa della pubblicità paghiamo più di quanto la concorrenza fra produttori potrebbe farci spendere.
    In URSS, essendo l’economia programmata dallo Stato, la pubblicità come la intendiamo noi occidentali non aveva motivo di esistere. Essa era mezzo per combattere l’analfabetismo, per fare propaganda politica e sociale al fine di emancipare le masse popolari. Dopo la seconda GM il protagonismo passò ai cartelli con tematiche del tipo “Recuperiamo l’economia nazionale!” Manifesti e cartelloni nei luoghi pubblici facevano parte della vita quotidiana delle persone e molti ricordano che nella loro infanzia erano frequenti cartelli come “Il pane è un bene del popolo, non sprecatelo!” oppure “Nell’uscire, spegnete la luce”.
    Il fenomeno della obsolescenza programmata nasce dalla volontà capitalistica di far consumare senza sosta e per avere certezza che ciò si verifichi occorre creare il BISOGNO e la NECESSITA’ anche quando non sono necessari. E il sistema più efficace è quello di mettere a disposizione dei consumatori oggetti, che in effetti sono delle vere e proprie baracche, pensati e realizzati per durare poco.
    Pare che si sia cominciato nel 1924 quando il cartello mondiale dei produttori di lampadine, Phoebus, decise di ridurre la durata dei bulbi a incandescenza da 2500 a 1000 ore: pensi che beneficio economico per i soci del cartello, con quale sacrifico dei consumatori poveri. E si pensi all’aumento spaventoso dei rifiuti! E da allora fu un continuo susseguirsi di baracche in tutti i settori.
    “L’opposto di quanto sarebbe accaduto nella Germania dell’est socialista (DDR) qualche decina d’anni più tardi, dove i frigoriferi dovevano garantire per legge una durata di 25 anni. Ma le lampade a lunga durata prodotte dalla Narva di Berlino o l’industrializzazione di modelli innovativi che promettono una vita utile perfino di 100.000 ore continuavano a non trovare spazio nel mercato occidentale.”
    (Le notizie sono tratte da A. Pascale “Il totalitarismo <>/Le tecniche imperialiste per l’egemonia culturale” pagg. 198/211)

    Per concludere: mi pare che sia ovvio il fatto che se non arriveremo a concordare una qualche forma di economia pianificata, ogni pretesa di salvare il pianeta e di distribuire la ricchezza e di educare la gente ad un più razionale consumo, è un’idea diventata chiaramente idiota.
    Ecco perché io non credo più ai propositi delle associazioni ambientaliste. Associazioni che farebbero bene a divulgare un pensiero politico di parte e non un generico programma di comportamento. Associazioni tra i cui vertici, io sospetto, si nascondono elementi borghesi che, ben camuffati, col loro comportamento concorrono a consumare il pianeta: sappiamo bene come la borghesia sia ipocrita e falsa e portata sempre a difendere i propri interessi di bottega e quelli personali. Valga per tutti l’esempio di quel Chicco Testa che, da autorevole rappresentante di Legambiente antinucleare, diventò col tempo e oggi imprenditore, uno strenuo difensore del nucleare.

    La ringrazio per l’attenzione.
    Voglia gradire i più cordiali saluti.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.