Fuga verso la libertà. Un racconto di Francesco Casoni
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Fuga verso la libertà

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Fuga verso la libertà

Non c’era voluto molto a mascherare il foro nel muro del bagno del terzo piano: se mai qualcuno si era accorto di quel pezzo di cartone dipinto alla meno peggio e appiccicato nel buco tra le piastrelle, probabilmente aveva pensato ad un lavoro fatto al risparmio, come accadeva di norma in quella struttura.

Il fatto è che era impossibile che qualcuno in quei mesi potesse cogliere indizi del piano di fuga. Osvaldo lo sapeva: là dentro chiunque si faceva gli affari suoi. Figurarsi se una signora delle pulizie si sarebbe accorta dello sporco rimasto per terra ogni volta che un pezzetto di muro era stato scavato via con il cucchiaio. Avrebbe al massimo scrollato il capo, pensando che quella razza di trogloditi si meritava proprio di essere rinchiusa lì dentro.

E sapeva bene, Osvaldo, che nemmeno il viavai notturno per completare per tempo il tunnel sarebbe stato notato. Del resto, da chi? L’ultima volta che uno di loro si era sentito male nel cuore della notte, era stato ritrovato stecchito nella branda solo la mattina successiva.

Proprio confidando in quella generale indifferenza da parte del personale, aveva elaborato e condiviso il piano di fuga con altri congiurati: sfondare le piastrelle del bagno comune, scavare nel muro, raggiungere i condotti di aerazione e da lì scendere nel seminterrato, correre fino alla recinzione senza essere visti dal personale di sorveglianza.

Come in “Fuga da Alcatraz”, esatto. Lo diceva sempre, quando discuteva di cinema con Luigi e con Carlo e alle volte anche con Nereo: certi filmoni di oggi erano inutili giri di giostra senza capo, né coda. Molto meglio certi classici.

Osvaldo aveva due miti: Clint Eastwood e Emilio Salgari. Al primo si era ispirato per quel folle piano di evasione, mentre dall’immaginario del secondo aveva fregato un nome di battaglia. “Chiamami pure Sandokan”, aveva detto poche ore prima a Michele, che passava come ogni sera a controllare che tutti fossero nei propri giacigli. E quello gli aveva pure risposto (“Buonanotte, Sandokan, a te e a tutte le tigri della Malesia”), pensando che a quel vecchio delinquente sciroccato era partita definitivamente la capoccia.

Osvaldo ridacchiava, pensando alla faccia che avrebbe fatto Michele, e intanto strisciava carponi nel condotto di aerazione, seguito dai compagni di fuga. La consegna era di muoversi nel più assoluto silenzio, ma Carlo brontolava a denti stretti: quella specie di tubatura era insopportabilmente sudicia di polvere e ragnatele e odorava di muffa. Aveva ragione Vincenzo a dire che quel piano era una cagata: molto meglio calarsi con una corda di lenzuola dalla finestra. Luigi gli fece cenno di piantarla. Ormai era tardi per recriminare. Erano arrivati all’uscita del condotto.

“Dove siamo?”, sussurrò quel tonto di Nereo. Osvaldo, alias Sandokan, gli fece cenno di stare zitto, mentre rimuoveva la grata che chiudeva il passaggio. Erano in una specie di scantinato, zeppo di scatoloni, pile di libri, vecchi mobili ammuffiti, copertoni di automobili e misteriosi mucchi di roba immersi nell’oscurità. Da una fessura in fondo entrava della luce, facendo intuire la presenza di una saracinesca. Incredibilmente si aprì con facilità.

E con altrettanta facilità il gruppetto attraversò, ventre a terra, il grande parco che li separava dall’ultimo ostacolo: scavalcare la recinzione e guadagnare la libertà. Anche se lì non c’era un mare da affrontare, come intorno ad Alcatraz, arrampicarsi sul recinto e saltare dall’altro lato era un’impresa di un certo rilievo. Quanto meno per un gruppo di persone dell’età media di 75 anni.

“Non rischieremo di spaccarci un femore?”, chiese Carlo, timoroso. “Se preferisci vivere gli ultimi anni della tua vita rinchiuso lì dentro…”, disse Luigi, indicando l’enorme edificio alle loro spalle, immerso nell’oscurità. Carlo si fece forza. Fu l’ultimo a salire: prese un grande respiro e con pazienza, una mano dietro l’altra, un piede dietro l’altro, guadagnò la cima della recinzione. “Ma col cavolo che salto”, pensò. Un cane in lontananza iniziò ad abbaiare. Con un nuovo respiro, Carlo scese con tutta calma dall’altro lato. E quando posò finalmente il piede per terra, avrebbe voluto rimanere lì un’ora a godersi quella sensazione di avercela finalmente fatta: di essere finalmente libero. Ma non c’era tempo, Osvaldo lo strattonò. Bisognava allontanarsi in tutta fretta, se volevano conservarla, la libertà.

Carlo annuì. Si voltò per un’ultima volta e, prima di darsi alla fuga con gli altri, salutò per sempre con un dito medio alzato la casa di riposo.