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Una tragedia inaccettabile

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Una tragedia inaccettabile

“È una tragedia inaccettabile!”

Il direttore della casa di riposo si rigirò tra le mani la penna, mentre fissava meditativo l'addetto stampa. Quell’altro ricambiò con lo sguardo vivace di una cernia sul banco del pescivendolo.

“Allora, che ne dici? - lo incalzò il direttore - Inaccettabile o intollerabile? Forse intollerabile suona meglio. È più perentorio. Sarà quella vocale, , che sembra un pugno battuto sul tavolo. O no?”

L'addetto stampa bofonchiò: sì sì. Tanto sapeva bene che il suo parere era assolutamente superfluo. Se avesse espresso una preferenza, il direttore avrebbe scelto l'opzione contraria.

E poi, a dirla tutta, non gliene fregava davvero niente che nel comunicato stampa della casa di riposo finisse la parola intollerabile, al posto di inaccettabile o insopportabile o inammissibile. (“Inammissibile. Però, senti come suona bene”, si sorprese a pensare).

Il fatto è che era appena morto un anziano. Era davvero una tragedia, che non aveva certo bisogno dell’aggettivo più tronfio per essere definita tale. Di certo la retorica non avrebbe resuscitato il vecchio, né lenito il dolore dei familiari.

Per il direttore, invece, il comunicato stampa era una faccenda delicatissima. Il signore in questione non aveva avuto la cortesia di morire di vecchiaia nel proprio letto, ma cadendo dal secondo piano. E mica per essere stato spinto da un fantasma: la corda di lenzuola legate insieme, che penzolava ancora triste dal balcone, raccontava di un rocambolesco tentativo di fuga.

Ce n’era abbastanza per mettere in discussione la buona gestione della casa di riposo. In altre parole, per far saltare in aria la poltrona sotto le chiappe a chi la dirigeva. E questa, per il direttore, era la vera tragedia inaccettabile, intollerabile e inammissibile. Anche più della morte di un anziano qualunque.

Questione di punti vista, si dirà.

"Occorre fare piena luce!", esclamò.

L'addetto stampa non capì se il direttore stesse esprimendo un pensiero o dettando il seguito del comunicato. Nel dubbio, prese un appunto svolazzante a penna, pensando che sarebbe stato piuttosto originale se il direttore avesse dichiarato: occorre insabbiare tutto il prima possibile. Che in fondo era ciò che sarebbe successo davvero nell'arco di pochi giorni. Le dichiarazioni ufficiali servivano a questo: a mistificare la realtà.

Il direttore, invece, era così compiaciuto del suono delle proprie parole, che proseguì nella escalation di aria fritta. “Queste cose non dovrebbero succedere nel 2023”, calò senza pietà. Guardò l’addetto stampa, che ricambiò con un vago cenno di assenso.

Impassibile, evitò accuratamente di replicare che certe cose non sarebbero dovute succedere nemmeno nel 2022 o nel 2021, figurarsi nel 2024 o nel 2034. E che di sicuro non sarebbero dovute succedere nemmeno nel 2018, quando un altro anziano era morto di infarto, cercando di scavalcare la recinzione esterna per andare a morosa di notte (così si narra). Ma tanto di quell’episodio si erano dimenticati tutti, direttore compreso. Tutta quella gran esibizione di sdegno, si sapeva, era un fuoco di paglia, al termine del quale la vita avrebbe ripreso a scorrere come prima. Accadeva per gli incidenti sul lavoro, per i femminicidi e per le catastrofi ferroviarie, figurarsi se non sarebbe accaduto per un vecchio già sepolto vivo in una casa di riposo.

Gliene fosse fregato qualcosa a qualcuno, non si sarebbero sprecati tempo e inchiostro nelle solite inutili perifrasi a suon di “si dovrebbe”, “bisogna”, “occorre che”. Gliene fosse fregato qualcosa a qualcuno, si sarebbe fatto qualcosa e basta, senza perdere tempo in chiacchiere.

Ma all’addetto stampa in quel momento premeva chiudere il più in fretta possibile quell’inutile comunicato stampa, tornare al computer, spedirlo, concludere la propria giornata lavorativa, tornare a casa e stordirsi di televisione per dimenticare per qualche ora di avere un lavoro.

“Bisogna fare in modo che fatti del genere non si ripetano”, suggerì. Il direttore lo guardò meditabondo, prese tempo. Doveva avere l’ultima parola.

“Non si ripetano più”, disse. Sorrise, soddisfatto, poi rincarò. “Anzi, mai più. Che ne dici?”

Tecnicamente era una ridondanza. Ossia una di quelle espressioni inutili, che non contribuiscono ad aggiungere senso al testo. Ma in fondo, pensò l’addetto stampa, l’intera dichiarazione contrita del direttore era una ridondanza. Dunque, perché obiettare?

“Secondo me mai più suona benissimo”, mentì.

Il direttore smise l’espressione soddisfatta e si accigliò. Fece un giro quasi completo sulla sedia, poi un altro nel verso opposto, infine tornò a fissare il dirimpettaio.

“Ma ti dirò che invece a me questo mai più non mi convince - sentenziò - Mi sembra una… una…” Ma non gli veniva la parola.

L’addetto stampa sospirò, incassò la piccola vittoria e chiuse la pratica. “Allora niente mai” e sottolineò la cosa con un frego di penna a caso sul foglio.

“Niente mai”, ribadì il direttore.

“Solo più?”

“Solo più”, conclude festoso, mentre l’addetto stampa usciva dalla stanza lesto, prima che quell’altro cambiasse idea.