A zonzo per Adria
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- CENTENARIO GIANFRANCO SCARPARI
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- Pubblicazione: 18 ott 2024
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- Scritto da Gianfranco Scarpari
In quegli anni le biciclette tradizionali, rigorosamente nere, avevano trovato delle giovani concorrenti in quelle che noi chiamavamo affettuosamente “rondinelle”. Non è che diminuisse, con il loro impiego, la fatica di pedalare, ma l’aspetto giovanile e sportivo e la varietà dei modelli finivano per personalizzarle, creando una sorta di binomio con il loro possessore. Avevano tinte varie del telaio (azzurro, giallo, verde, argentato), erano dotate di cambio e, nei modelli più costosi, di freno contropedale. Il manubrio rettilineo metteva, a volte, a dura prova la schiena di chi le usava e le selle rigide finivano per trasformarle in strumenti di tortura. Ma costituivano, indubbiamente, un mezzo molto adatto per far colpo sulle ragazzine.
Durante la buona stagione, il viale della stazione era il luogo ove, verso sera, si ripeteva più volte il percorso di poche centinaia di metri affiancando gli sciami di coetanee nel tentativo di convincere quella, che era oggetto del nostro interesse, ad una deviazione per una passeggiata a tu per tu. Ma durante l’inverno le biciclette stavano a riposo. Ci incontravamo lungo il corso per sostare sul ponte di Castello dal quale si domina il bacino del Canalbianco. A ridosso dei muraglioni che racchiudono il corso d’acqua, erano ormeggiati, numerosi, i barconi. Provenivano dal Delta, dai porti veneti, talora, addirittura, dalla costa dalmata. Giocando d’equilibrio sui tavoloni che univano i natanti alle banchine, i facchini scaricavano o caricavano, portandole sulle spalle, le merci più varie: legname, carbone, farina, ortaggi. Indossavano quasi tutti una camicia nera, non certo per motivi di adesione al credo fascista, ma unicamente per rendere meno evidenti le tracce di sporcizia che i carichi lasciavano sulle loro spalle. Erano divisi in “carovane”, spesso in conflitto l’una con l’altra per accaparrarsi un’operazione di carico o scarico o per la ripartizione di un compenso. Ne conseguivano accese dispute. I corpi a corpo erano rari, ma le urla, condite da pittoresche imprecazioni che chiamavano in causa intere genealogie, si udivano da una parte all’altra del canale.
Terminato il lavoro e spartito l’introito della giornata, i facchini, a piccoli gruppi, entravano nelle osterie. Ve n’erano parecchie lungo la riviera, caratterizzate, dalle imposte, dalle tende rossastre, non si sa se per contrassegnare la loro funzione o per dissimulare le macchie di vino prodotte dagli avventori. Tavoloni grezzi, sedie impagliate, un rustico bancone costituivano tutto l’arredamento. In un angolo era sistemata la sputacchiera di lamiera zincata, riempita di calce, e, sopra di essa, appeso alla parete, spiccava un cartello: “La persona civile non sputa per terra e non bestemmia”, raccomandazione alla quale i clienti non facevano molto caso.
Preferivano bevande di qualità piuttosto corposa: il friularo o un taglio con vino meridionale che, chissà perché, era chiamato “bacò”. I bicchieri, di vetro grossolano, erano riempiti fino all’orlo e, tra l’uno e l’altro, si stimolava il palato con acciughe arrotolate, pezzetti di formaggio, cipolline sott’olio. Fatto il pieno, qualcuno dava l’avvio ad esibizioni canore: brani d’opera, romanze, canzoni popolari e, un poco per volta, alla voce solista si affiancava il coro al quale si associava, dall’osteria vicina, un altro coro. Tutto sembrava filare per il meglio fino al momento, tanto atteso dal nostro posto di osservazione sul ponte, dell’arrivo delle donne: due o tre in tutto. Sbucate apparentemente dal nulla, percorrevano, a rapidi passi la riviera e, a colpo sicuro, si infilavano nei locali ove si trovavano i rispettivi mariti. Pochi secondi dopo i malcapitati uscivano, seguiti dalle consorti che, tra uno spintone e l’altro, li accusavano di sperperare nelle osterie i quattrini sottraendoli alle necessità della famiglia. Sugli usci, gli altri facchini si assiepavano ad assistere silenziosi e tristi alla scena.
Appoggiati al parapetto del ponte, noi quattro, ci abbandonavamo a grandi risate, colpiti più dal colore goldoniano che dai risvolti umani della vicenda.
da “Gli anni della cornacchia” Ricordi adriesi e polesani 1934-1946. Perosini Editore, Zevio (VR), 2002
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