Un racconto di Gianfranco Scarpari
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Donna Bice e il condono

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Donna Bice e il condono

Donna Bice e il condono

 

da “IL GAZZETTINO ” 7 Aprile 1986

 

La signorina Beatrice C., detta Bice, il cui codice fiscale tradisce una data di nascita nell’ultima era umbertina, si è presentata una mattina presto, dopo la messa, sull’uscio del mio studio portando con sé una cartella ingiallita. Le vecchie mani, di solito fermissime, tremavano leggermente quando posò sul tavolo il fascicolo che recava, scritta a penna, in rotondo, l’intestazione di un atto notarile.

Era la successione di suo padre al nonno nella proprietà di quell’immensa casa, per tre quarti inutilizzata, dove donna Bice vive ora con una governante forse ancora più anziana di lei. Quel blocco quadrato di mattoni era stato, sino alle soglie dell’ultima guerra, l’accogliente asilo di una vera e propria dinastia di genialoidi che, un po’ per volta, si dispersero avventurosamente per il mondo lasciando qualcuno l’impronta della sua intelligenza, altri i segni di una prodiga sregolatezza.

Dei sopravvissuti, donna Bice non aveva saputo più nulla, né penso si sia mai soverchiamente preoccupata di informarsi: a lei più che seguire le sorti dei vivi, interessava custodire le memorie del passato. Era l’attenta diligente guardiana di quella grande casa, una gentile sentinella destinata ad attendere impossibili ritorni.

- Mé nono gà trascura i so’ afari – furono le prime parole – La casa xé fora lege e bisogna condonare.-

Sapevo che quella costruzione non aveva, a mia memoria, mai subito modifica alcuna.

- Cosa vuole condonare? –

- El retrè - .

Credevo di sognare, ma ricordai che anche mia nonna chiamava con quel termine dialettale, derivato dal francese e passato dal femminile al maschile, la «ritirata» (la «retraite»: un settore ricavato nelle grandi camere da letto per sistemarvi i rudimentali servizi igienici di cent’anni fa).

- Impossibile – osservai – dopo tanto tempo le variazioni catastali devono essere state apportate.

Ma donna Bice era già passata negli uffici e mi esibì la planimetria della casa nella quale il “retrè” non figurava.

- Lo gà fato costruire mé nono «abusivamente» (e calcò sulla parola) quando so’ mama se gà infermà -.

Sembrava incredibile. In tempi di interi quartieri abusivi, di lottizzazioni selvagge, di centri balneari inesistenti per qualsiasi mappa, quella donna era andata a ripescare, come se si trattasse di un delitto, la costruzione di una tramezza di legno intonacato eretta dal nonno, ufficiale austro-ungarico, per rendere più confortevoli gli ultimi giorni di sua madre.

- Va bene, se lo vuole, faccia pure il condono – non potei che rispondere.

- No’ basta – aggiunse – ghe xè anche el canevìn –.

Si tratta di un sottoscala chiuso da una tramezza che veniva usata come dispensa.

- Donna Bice – osservai - guardi che il «canevìn» non è rappresentato nelle planimetrie perché sta sotto la scala.

- Ma el xé sta fato dopo – insistette – questa xè la fatura del murèr -.

E c’era: datata 1907.

- No’ gavaria mai pensà tanto disordine da parte dei mé veci. Mè nono el gèra un omo de sesto, ma qualche volta el se lassava tor la man da l’impulso -.

Mi pregò di andare a visitare i «corpi del reato». E in una soleggiata mattina, riattraversato, dopo tanti anni, il vialetto selciato in mattoni e fiancheggiato dagli oleandri, mi trovai nella sala che si conclude con la scala a due rampe convergenti su un unico pianerottolo. Sotto di esso si apre la porta a vetri colorati (che tanto mi aveva affascinato da bambino), affacciata sull’orto posteriore.

Provai un senso di freddo e la mia ospite se ne accorse.

- Tegnemo el termo basso perché le piante le patisse –.

Ma sapevo che l’unico locale riscaldato era la grande cucina dove funzionava, con parsimonia, una stufetta in terracotta alimentata a legna. La raccoglievano, nel giardino, donna Bice e la domestica, rimastale fedele a condividere, penso con un magro stipendio, la dignitosa povertà della padrona.

Entrammo nel “retrè”: una vasca da bagno arrotondata con i piedi di ceramica, lo scaldabagno in rame col fornello in ghisa, ogni particolare accuratamente conservato ne facevano un esemplare di arredo sanitario che meritava qualcosa di ben diverso dal condono.

- Le piastrèle e i aparecchi li gà fati montar el papà subito dopo l’altra guera. Ghe sarà da pagar qualcosa anche per quei -.

Non le risposi. Le misi un braccio intorno alle magre, curve spalle. Non me la sentii di suggerire a donna Bice di andare sulla «Serenissima» per organizzarvi un blocco stradale, e così mi decisi a far la pratica per il condono edilizio, una delle poche, fortunatamente, passate per il mio studio.