Gianfranco Scarpari e l'arrivo del personale computer
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Duelli col computer

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Duelli col computer

Gabriele D’Annunzio scriveva con la penna d’oca su fogli di carta fatta a mano. Io, come tanti altri, usavo una Olivetti portatile, sulla quale mancava il tasto della “ò” e del punto esclamativo: così per parecchi anni, fino a quando qualcuno mi consigliò di comprarmi un computer. Sarebbe stato molto più semplice scrivere, correggere, spostare le frasi, eliminarle, aggiungerne. Avrei potuto cambiare i caratteri, ingrandirli, ma soprattutto avrei avuto a disposizione la “memoria” che consente di immagazzinare ciò che si scrive per poi trasferirlo nei “dischetti”, a garanzia di una perenne conservazione. Suggestionato da questa elencazione di pregi, mi decisi e andai nel negozio per l’acquisto.

Venni accolto da un ragazzo occhialuto e gentile che, per prima cosa, mi chiese se il computer lo volevo portatile. Gli risposi subito affermativamente. Avrei potuto portarmelo in montagna, magari solo per fargli respirare dell’aria buona. Cominciai invece a trovarmi in difficoltà quando mi domandò quale “linguaggio” avrei preferito. Risposi:

“Italiano e, in qualche caso, dialetto veneto”. Sorrise e mi spiegò cosa

intendesse per “linguaggio”. Senza aver capito quali differenze ci fossero tra l’uno e l’altro, risposi:

“Prenderò il Macintosh. Sembra una marca di whisky”.

Finalmente mi mostrò l’apparecchio. Azzurro esternamente e bianco all’interno, con gli angoli arrotondati, aveva l’apparenza di una bilancia da cucina. Lo accese e, con una velocità incredibile, manovrò i tasti spiegandomi come funzionava. Poi mi chiese:

“Vuole anche la stampante?”

“Alla stampa dovrebbe provvedere l’editore”, risposi, pensando che intendesse vendermi una tipografìa. Con pazienza me ne mostrò una e la fece funzionare esaltandone l’utilità, tanto da convincermi all’acquisto.

Mise il tutto dentro grandi scatole di cartone e, mentre pagavo, aggiunse un altro pacchetto dicendomi:

“Questi sono i dischetti che la ditta le regala”.

Tornai a casa con tutta quella grazia di dio e mi misi, con entusiasmo, ad installarla. Mia moglie assisteva alla scena piuttosto preoccupata. Mi domandò:

“Sarai capace di farlo funzionare?”

“In fondo sono ingegnere”, risposi con freddezza.

Il libretto delle istruzioni era scritto in inglese e così dovetti ricorrere al dizionario, con la complicazione che la bella lingua di Shakespeare usa lo stesso vocabolo per tutta una serie di significati diversi.

Finalmente lo accesi e lui mi salutò con un accordo musicale in do maggiore. Poi comparvero sullo schermo delle immagini che sembravano dei carciofi. Sparirono da sole lasciando il posto ad un numero infinito di quadratini che recavano, nel loro interno, dei segni indecifrabili. Dopo una serie infinita di tentativi falliti e di consultazioni telefoniche con un amico esperto, finalmente comparve la pagina bianca sulla quale avrei potuto scrivere. Tirai un sospiro di sollievo e mi misi all’opera.

Ma entrai immediatamente nella più totale disperazione, quando mi accorsi che stavo scrivendo con i caratteri dell’alfabeto greco. Pensai che la ditta produttrice avesse esportato, per errore, in Italia un computer destinato alla Grecia. Afferrai il telefono e chiamai il mio fornitore. Mi passarono il ragazzo con il quale avevo trattato l’acquisto. Mentre gli spiegavo il problema ebbi il sospetto che ridesse in silenzio. Mi diede le dovute istruzioni e mi consigliò di usare i caratteri “New York” o “Chicago”. Scelsi “New York” e giurai di non toccare mai più quel tasto.

Finalmente riuscii a scrivere una decina di pagine. Dapprima provavo qualche difficoltà nel correggere gli errori e nel modificare il testo, a causa di quella freccia che scappava da tutte le parti, ma dopo un paio d’ore, dovetti ammettere l’utilità di quello strumento di scrittura rispetto alla vecchia Olivetti che, cacciata in un angolo, sembrava guardarmi con un’espressione triste di rimprovero.

Decisi di fermarmi e di mettere il tutto in “memoria”. Ripresi il libro delle istruzioni ed eseguii una serie di manovre. Sennonché il computer si mise ad emettere fischi e suoni di tromba. Si era arrabbiato. Alla fine del concerto, lo schermo si oscurò completamente. Chiamai in aiuto l’amico che venne personalmente a verificare cos’era successo. Niente da fare: avevo cancellato tutto.

Il primo impulso fu di portare il tutto alla discarica e di chiedere scusa alla vecchia Olivetti. Ero entrato in una crisi profonda. Soltanto dopo parecchi giorni, mettendo da parte il prestigio professionale, ne parlai con un giovane geometra che lavora nel nostro studio ove, da anni ormai, si opera con i computer. Il ragazzo mi offrì la sua collaborazione ed elencò, su alcuni fogli, le operazioni da compiere e quelle da evitare per non incorrere in altre catastrofi. Ora le seguo letteralmente e, per l’uso elementare che ne faccio, fino ad oggi, l’apparecchio non mi ha più tradito. Ma ugualmente, quando lo accendo, mi sento nei panni di quei militari che vanno in giro per il mondo a disinnescare bombe.

E’ venuta a trovarmi una nipotina che, da qualche tempo, possiede un suo computer e mi ha chiesto di provare il mio. Scorrendo sui tasti con le dita, come se suonasse il pianoforte, mi ha illustrato tutte le cose meravigliose che l’apparecchio è in grado di fare.

da “Una corsa nel tempo” Perosini Editore, Zevio (VR), 2004



“Non mi servono” - ho osservato - “A me basta che si comporti bene per quei pochi servizi che gli chiedo”.

“E va bene, nonno. È come se avessi comprato una Ferrari per viaggiare solo in prima”.

Poi aggiunse, indicando l’Olivetti:

“Quella lì potresti regalarmela, la userei come soprammobile”.

“Quella resta lì. Non si sa mai”.