Il cocchio di re Adriano
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- CENTENARIO GIANFRANCO SCARPARI
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- Notizia pubblicata venerdì 27 dicembre 2024
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- Scritto da Gianfranco Scarpari
Qualche anno dopo si cominciò a parlare di un canale navigabile destinato a congiungere la Lombardia all’Adriatico, secondo un percorso che avrebbe interessato la nostra cittadina. L’opinione pubblica si era divisa in due fazioni: c’era chi voleva il nuovo alveo nel centro urbano, creando l’occasione per un risveglio commerciale e per un rinnovo urbanistico, e chi, invece, l’avrebbe preferito lontano alcuni chilometri perché non intralciasse il futuro sviluppo edilizio della periferia. La decisione ovviamente spettò al grande gerarca. Messo di fronte ad una mappa, sulla quale erano state rappresentate le due proposte, dopo un attimo di meditazione, impugnò una matita rossa e tracciò una linea che era a mezza strada tra le due in discussione. Si girò sui tacchi e lasciò la sala tra l’applauso dei presenti nei confronti di quel gesto salomonico.
I lavori per lo scavo, la formazione degli argini e la costruzione delle conche di navigazione incominciarono qualche anno dopo. Tecnicamente il nuovo corso d’acqua era denominato “idrovia Locarno-Venezia”, ma entrò nell’uso comune quella politica di “canale Mussolini”. Le opere, nel tratto che interessava la nostra provincia, furono ultimate rapidamente, ma l’impiego per la navigazione, oggi, a sessantadue anni di distanza, nonostante periodiche promesse, è ancora di là da venire. Il corso d’acqua è utilizzato, per ora, da qualche pensionato per la pesca domenicale.
Fu proprio durante i lavori a sud di Adria che venne alla luce un sepolcreto etrusco. Mio padre, per conto della Soprintendenza, si recava spesso a controllare il recupero del materiale, fotografandolo e catalogandolo prima che venisse portato al museo dal momento che le opere idrauliche non potevano venire sospese. Una mattina giunse trafelato a casa nostra un assistente agli scavi che annunciò con aria solenne:
- Architeto, i gà trovà la carossa del re Adriano, ma pare che no’ la sia de oro -.
Si riferiva ad una leggenda popolare secondo la quale, in un luogo sconosciuto delle nostre campagne, sarebbe stato sepolto anticamente, con il suo aureo cocchio, un mitico re Adriano. Dal nome del misterioso monarca sarebbe derivato quello della città e del mare vicino. Comunque l’annuncio fece interrompere a mio padre la colazione e io chiesi ed ottenni di accompagnarlo nella visita al cantiere.
Intorno alla grande fossa quadrata sostavano numerose persone che discorrevano sotto voce fissando gli scheletri perfettamente conservati di due cavalli adagiati sui fianchi. Dietro di essi i cerchioni in ferro di quella che doveva essere stata una biga. E un poco più distante un terzo cavallo che portava tra i denti il morso di bronzo e, infilato tra le costole, un lungo ferro forse usato per il sacrificio. Mio padre scattò una serie di fotografie mentre gli operai, all’interno della fossa, con attrezzi e soprattutto con le mani, pulivano dall’argilla che li avvolgeva gli scheletri cercando invano se vi fossero resti delle strutture in legno del carro. La notizia si diffuse in tutta Italia e, nei giorni seguenti, giunsero in visita corrispondenti di giornali e riviste, studiosi di archeologia, semplici curiosi. Fu disposto sopra la fossa un grande tendone impermeabile, ma i lavori nel canale dovevano proseguire e inoltre la protezione provvisoria avrebbe assicurato la conservazione solo per un breve periodo. Allora fu presa una decisione per quei tempi piuttosto audace: prendere in blocco tutto com’era e trasportarlo in una sala al piano terra del museo. Le difficoltà e i problemi da risolvere erano molti e le proposte che arrivavano le più varie e talvolta fantasiose. Alla fine fu deciso di costruire una rampa per giungere al fondo dello scavo e di unire tra loro quattro carri agricoli, preventivamente rafforzati, per sistemarvi il blocco di terra che ospitava gli scheletri dopo averlo fissato su di un basamento. Il trasporto al museo si sarebbe effettuato di notte per non intralciare il traffico.
Ho potuto assistere al passaggio del corteo dal poggiolo della casa dove abitavamo che s’affacciava su corso Vittorio Emanuele. Rimasi in attesa con mia madre per quasi un’ora rispetto all’orario previsto, poi finalmente udimmo le voci degli accompagnatori che si approssimavano e il cigolio delle ruote del convoglio che procedeva con una lentezza esasperante. Il “carro funebre del lucumone”, com’era stato ormai battezzato, era tirato da sei coppie di buoi che all’ultimo momento erano state preferite ai trattori per evitare strattoni e scosse pericolosi. Il percorso era rischiarato più dalle torce che dalla illuminazione pubblica e il riverbero produceva ombre enormi e mutevoli sui muri delle case, sul selciato, trasformando in maschere carnevalesche i volti delle persone. Mio padre seguiva il corteo spostandosi da un lato all’altro per dare suggerimenti, ma i veri protagonisti erano quei tre cavalli riemersi da un sonno durato oltre duemila anni nell’acqua, nel fango.
Eravamo negli anni segnati dalla maniacale esaltazione della romanità e un giorno, mentre sedevamo a tavola, il gerarca chiamò da Roma mio padre al telefono per conoscere dettagli sulla vicenda. Dopo averlo rassicurato sul buon esito del trasporto, mio padre tacque per qualche secondo quindi, quasi ironicamente disse:
- No purtroppo, onorevole, si tratta soltanto di un guerriero etrusco o veneto del quale stiamo ora cercando la sepoltura -.
Un’altra pausa. Poi concluse:
- Nessuna possibilità, onorevole, mi dispiace molto – e, riprendendo posto a tavola:
- Mi ha chiesto se si poteva farlo passare per un proconsole romano -, ci informò ridendo.
da “Gli anni della cornacchia” Ricordi adriesi e polesani 1934-1946. Perosini Editore, Zevio (VR), 2002