Il teatro del Littorio
Leggi l'articolo

- CENTENARIO GIANFRANCO SCARPARI
- |
- Pubblicazione: 29 nov 2024
- |
- Scritto da Gianfranco Scarpari
La popolazione adriese, specie in passato, ha sempre dimostrato una grande passione per la lirica. Nell’ottocento esisteva un teatro, il Politeama, che fu sede di importanti stagioni d’opera, con speciale preferenza per il repertorio verdiano. Malauguratamente l’edificio fu distrutto da un incendio e, di conseguenza, il pubblico dovette accontentarsi di una sede più modesta: il teatro Sociale, affettuosamente ribattezzato dagli appassionati “la caponàra” per le scarse qualità architettoniche e ricettive. Ma anche il Sociale subì, entro breve tempo, lo stesso destino.
Negli anni ‘20, un adriese tentò l’avventura di costruire un nuovo teatro, ma il suo sforzo si esaurì con l’edificazione del solo palcoscenico, rimasto, per oltre un decennio, come una grande bocca spalancata su uno spiazzo deserto. Gli adriesi invocavano il completamento della costruzione come riconoscimento ad una terra che aveva dato alla musica contemporanea direttori d’orchestra quali Antonio Guarnieri, Tullio Serafin, Fernando Previtali e vantava prestigiose istituzioni: il Liceo Musicale e la Società Corale, affermatasi anche a livello internazionale. Il grande gerarca non rimase insensibile all’appello. Trovò i finanziamenti per realizzare l’opera e il Comune ne affidò la progettazione a mio padre. Il nuovo teatro, al quale era già stata, ovviamente, assegnata la denominazione “del Littorio”, venne previsto in forma innovativa rispetto alle sale di tradizione: riduzione ad un solo ordine di palchi, ampie gradinate e minimo ingombro di pilastri e colonne, ciò soprattutto in virtù dell’impiego del cemento armato. Anche l’opera da eseguire per l’inaugurazione era stata scelta con notevole anticipo: il Mefìstofele di Arrigo Boito. Durante i lavori il gerarca effettuò qualche visita. Nel corso di una delle ultime, raccomandò a mio padre di provvedere alla dotazione di un orologio da porre sopra il palcoscenico.
«Vuole l’orologio, come nelle stazioni ferroviarie», fu il suo sarcastico commento. Finì per accontentarlo solo in parte facendo eseguire, sopra il palcoscenico da uno scultore bolognese, un fregio raffigurante le muse della tragedia e della musica, rivolte verso un fascio littorio posto al centro, e confinando l’orologio su una parete laterale. Il gerarca non avrebbe potuto pretendere la rimozione del fascio.
Venne finalmente la serata dell’inaugurazione. I posti nel loggione non erano numerati e il pubblico si era assiepato davanti all’ingresso laterale fin dal pomeriggio. Era costituito in gran parte da gente dei ceti più poveri o proveniente dalla campagna. Molti, in vista della lunga attesa, avevano portato panini, ciambelle e fiaschi di vino. Davanti all’ingresso principale sfilavano, una dietro l’altra, le auto che scaricavano signore in vestito da sera e uomini in smoking, osservati da un’ala di gente che si accontentava di assistere, commentando ad alta voce e, apparentemente, senza invidia o rancore.
Mi era stato comperato per l’occasione un vestitino blu con i pantaloni corti e presi posto, con i genitori, in platea. Qualcuno, dal loggione, gridò un evviva a mio padre e il pubblico si associò con un battimani. Le luci della sala si spensero restando illuminati solo i palchi e il gerarca comparve, in uno dei centrali, indossando una fiammante sahariana bianca. Tutto il pubblico gli tributò una vera ovazione, forse l’unica sincera che, in tanti anni, i suoi concittadini gli abbiano rivolto.
Seguirono gli inni nazionali. Poi, finalmente, il sipario si aprì su Mefistofele che, circondato da nuvole e vapori, lanciava la sua sfida al Padreterno.
da “Gli anni della cornacchia” Ricordi adriesi e polesani 1934-1946. Perosini Editore, Zevio (VR), 2002