Il tramonto di un viale
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- CENTENARIO GIANFRANCO SCARPARI
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- Notizia pubblicata il 9 agosto 2024
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- Scritto da Gianfranco Scarpari
Il tramonto di un viale
da “IL GAZZETTINO” 8 Settembre 1986
IERI... Nei tardi pomeriggi d’estate la gondola bianca del gelataio poteva sostare quasi al centro del viale lasciando ugualmente spazio al passaggio dei rari taxi diretti alla stazione o al grosso carro gommato dell’agenzia di città trainato dal biondo cavallone belga, oggetto di perenne ammirazione da parte dei bambini. Ai due lati della carreggiata v’erano, ed esistono ancor oggi, i vialetti pedonali in cubetti di porfido, fiancheggiati da maestosi platani potati a spalliera secondo l’uso provenzale. Le panchine in legno tinteggiate di verde, disposte su questi percorsi, quasi per un tacito accordo, erano riservate, da un lato ai giovani, dall’altro agli anziani e non ricordo mai di aver visto, a quei tempi, qualcuno trasgredire questa regola.
Il viale era l’unica strada in asfalto della cittadina, per il resto pavimentata prevalentemente in ciottoli, e costituiva il luogo ideale per passeggiarvi con le biciclette superleggere conquistate, dai ragazzi di allora, dopo anni di tentativi inutili, a seguito del felice esito di una prova scolastica. Avevano il manubrio di forma aperta con i freni esterni disposti ad arco e forse per questo erano chiamate «rondinelle». Alcuni privilegiati erano riusciti a dotarle del cambio, accessorio esclusivamente decorativo in un paese del tutto pianeggiante. Una bicicletta nuova che si presentasse sul viale era oggetto di attento esame da parte di tutti e costituiva quasi sempre, per il suo possessore, una chance per ottenere maggiore considerazione nel campo femminile.
Le ragazze, anziché percorrerlo ripetutamente nei due sensi, preferivano sostare su di uno slargo nella parte terminale del viale, di fronte alla stazione. Di là potevano controllare i loro coetanei che, compiuta un’ampia curva, giravano loro intorno per poi invertire la direzione. Erano approcci silenziosi: lo scambio di un’occhiata e poi, giorno dopo giorno, un timido saluto, una battuta e, quando andava bene, la «rondinella» solitaria trovava l’altra «rondinella » con la quale accompagnarsi, tra l’invidia degli amici, nell’andare e venire sotto l’ombra dei grandi platani.
Quando scendeva la notte il viale diventava semideserto. Qualche gruppetto di nottambuli, all’uscita dai caffè, vi passeggiava per sgranchirsi le gambe discutendo animatamente sull’ultima mano di tressette. Da una panchina lontana, accompagnata da una chitarra, il cui suono andava e veniva con la brezza notturna, una voce in falsetto intonava l’ultima canzone di Oscar Carboni.
OGGI... Il sabato e la domenica, dal primo pomeriggio a sera inoltrata, è difficile potersi muovere, in bicicletta o a piedi, lungo il viale. Due colonne di macchine lo percorrono nei due sensi senza soluzione di continuità: la stessa vettura si ripresenta puntualmente, ad intervalli regolari, per dieci, venti volte e il lento, quasi funereo corteo viene ogni tanto superato dalla rabbiosa «sgommata» di un motociclista impaziente e in vena di esibizioni.
Altre vetture sostano di traverso sui vialetti pedonali ormai dissestati. Se gli sportelli sono chiusi ospitano qualche coppietta in vena di effusioni, se invece le portiere sono spalancate e la radio è accesa a tutto volume, significa che i passeggeri siedono, ad almeno dieci metri di distanza, su una panchina a godersi la musica assordante. In un certo settore si raccolgono invece i proprietari delle moto più potenti, sollevate sui cavalletti, luccicanti ed aggressive. Le guardano con lo stesso occhio furbo da intenditori con il quale i loro vecchi, al mercato, passavano in rassegna i bovini legati alla stanga. Ogni tanto uno di loro se ne va con un sibilo del motore e imbocca una strada laterale tra il terrore dei gatti e dei piccioni.
Di sabato e domenica sul viale non s’incontrano né bambini, né mamme con la carrozzina. Gli anziani, la cui giurisdizione si è ormai ridotta, negli altri giorni della settimana, ad un paio di panchine, si guardano bene dall’avventurarvisi: non si sentono in possesso di riflessi sufficienti per mettersi al sicuro dalle imprevedibili manovre dei mezzi meccanici e, tutto sommato, sono ancora affezionati ai loro vecchi femori.
Nelle ore più tarde, quando gli ospiti provenienti dal contado sono ormai rientrati alle loro borgate, il viale resta riserva esclusiva degli amanti della velocità che improvvisano gimkane tra gli alberi e i lampioni, «derappaggi» e fragorose frenate ogni tanto accompagnati dal crepitio di un faro frantumato. Il mattino del lunedì i netturbini hanno il loro daffare per raccogliere i resti di due giornate di bivacco.
Intanto i grandi alberi sono vittime di un parassita che ne squama la corteccia e a poco a poco fa disseccare rami e radici. Un esperto, interpellato, ha fatto la sua diagnosi: ceranocystis fimbriata, chiamata volgarmente cancro colorato del platano. Ma vien voglia di pensare piuttosto che le vecchie piante stiano morendo di malinconia.