fbevnts Gianfranco Scarpari e un fatto crudele di un secolo fa
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La donna nella valigia

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La donna nella valigia

Si tratta di una storia accaduta ad Adria nel primo novecento

 

 

Qualche volta, la domenica verso mezzogiorno, mia madre mi mandava ad acquistare, nella pasticceria in piazza, una torta di mandorle o una meringata. Accadeva, di solito, quando a casa avevamo qualche ospite. Era l’ora in cui, dalla Cattedrale, usciva la gente che si era recata a “messa ultima”. Tra tutte le persone nelle quali m’imbattevo, mi aveva da sempre colpito una coppia: marito e moglie. Lui era piccolo, grassottello, con un viso rotondo e minuto, sempre sorridente, lei molto alta, con l’espressione perennemente imbronciata, vestiti con abiti lunghi, un po’ fuori moda, che ogni volta avevano un colore diverso. Portava capelli vistosi, spesso ornate di piume o di fiori. Avanzava lentamente sulla piazza, senza guardare nessuno, mentre il marito la seguiva a qualche metro di distanza, trotterellando allegramente. La donna puntava decisa verso la pasticceria, mentre l’uomo la sorpassava, negli ultimi metri, per aprirle, servizievole, la porta del negozio.

Arrivavano quasi sempre, prima di me quindi dovevo mettermi in disparte, mentre lei, indicando con il dito inguantato le paste distribuite sul banco, le faceva disporre nel vassoio. Si trattava di buoni clienti, perché la commessa elargiva larghi sorrisi e si sbilanciava in espressioni gentili, senza che la donna muovesse un muscolo del suo volto o mostrasse un segno di condiscendenza. Preparato il cartoccio il marito avanzava per riceverlo, quindi passava alla cassa a pagare. Avvicinandosi all’uscita, lui distribuiva saluti e ringraziamenti quasi a voler rimediare all’atteggiamento della moglie che, in tutto quel tempo, non aveva pronunciato una sola parola.

L’interesse che provavo per quelle due persone mi indusse a chiedere ai miei genitori chi fossero. Rispose mio padre:

“Lui è un meridionale, impiegato allo zuccherificio. Neanche lei è delle nostre parti, ma non si sa da dove provenga. Abitano in un appartamento al secondo piano, in via Carducci”.

Non dimostrava per loro il minimo interesse.

Una mattina, rientrando da scuola, scorsi, appoggiato di traverso su una poltrona, il quotidiano locale. Recava un titolo a sette colonne ”Uccide la moglie e ne strazia il cadavere”. Chissà perché prima ancora di leggere la cronaca, avvertii il presentimento che si trattasse della coppia che incontravo la domenica.

L’articolo descriveva nei particolari quanto era accaduto due notti prima, al secondo piano della casa di via Carducci. Gli inquilini del campo di sotto, abituati da anni, al comportamento discreto e silenzioso della coppia, avevano avvertito verso l’ora di cena, una serie di insulti che marito e moglie si scambiavano, seguita da un lungo silenzio. Più tardi avevano sentito strani rumori e lungo scorrere di acqua negli scarichi del bagno. Sul soffitto del locale, il mattino seguente, erano comparse delle macchie rossastre. Per tutto il giorno non avevano visto la moglie mentre l’uomo, ripetutamente, era sceso per la scale portando con sé una valigia. Inforcava la motocicletta, che teneva parcheggiata nel vano d’ingresso, e si allontanava per fari ritorno dopo una mezzora. Impressionati dal quelle strane manovre, gli inquilini si erano decisi a telefonare ai carabinieri. Un maresciallo e un milite si erano presentati proprio mentre l’uomo stava caricando sulla motocicletta la valigia. Lo costrinsero ad aprirla Conteneva resti umani e non fu difficile stabilire che si trattava di quelli della moglie. Aveva percorso a più riprese il tratto di strada che conduce al Po, per scaricare il contenuto nel fiume.

In città non si parlava d’altro. Sembrava impossibile che un ometto dall’apparenza mite e sottomessa, così buffo quando saltellava sorridente intorno alla mole della moglie, accigliata e autoritaria, avesse potuto compiere un gesto di quel genere. E le ipotesi che si formulavano sul movente furono le più varie. Il settore femminile appariva compatto nel condannare l’uxoricida, mentre, tra gli uomini, serpeggiavano opinioni diverse. Alcuni accennavano al fatto che la moglie, con la smania di apparire elegante, avrebbe costretto l’uomo a indebitarsi finendo per portarlo all’esasperazione, altri, in forma più scanzonata o per puro amore di polemica, dipingevano il gesto come la scontata reazione di un soggetto, da sempre tiranneggiato, che aveva tentato di restituire dignità al sesso maschile.

La municipalità organizzò, a spese pubbliche il funerale della vittima: una folla immensa seguì il feretro tra corone e mazzi di fiori in quantità. Un avvocato locale dettò l’iscrizione per la lapide che sarebbe stata murata sul loculo. Al nome di lei seguivano queste parole:

“La comunità adriese

volle qui ricomposte

le spoglie di

ANNA VECCHI

dolce creatura

efferatamente soppressa

da un cinico discepolo

di Landru”

Nei confronti del marito non vi fu alcun processo. L’uxoricida si suicidò in carcere usando la cintura dei pantaloni.

Molti decenni più tardi qualcuno deve aver avuto notizie della vicenda adriese. Ne uscì una canzoncina popolare che ebbe, per qualche tempo, una certa diffusione:

“Una donna tagliata a pezzetti

fu trovata in una valigia

con la testa staccata dal busto,

oh che gusto, che gusto, che gusto”.

da “Una corsa nel tempo” Perosini, Zevio (VR), 2004




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