fbevnts Una riviera adriese di tanto tempo fa
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La riviera del Belvedere

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La riviera del Belvedere

Così si chiamava, nel primo Ottocento, la riviera che fiancheggia il Canalbianco nel centro di Adria. Vicende successive fecero mutare la sua denominazione, dapprima in “Umberto I”, poi in “Matteotti”. Ma, pur con tutto il rispetto per i due personaggi storici, chiamarla ancora “Riviera del Belvedere” risulta molto più suggestivo.

Fino all’inizio dell’ultimo conflitto mondiale, il tratto di canale, compreso tra il ponte girevole di Sant’Andrea e quello ad arco di Castello non rappresentava soltanto un piacevole elemento paesaggistico, ma costituiva un settore urbano nel quale si svolgevano attività di vitale importanza per l’economia cittadina del tempo.

L’ “oppressore” governo austriaco aveva fatto costruire, a contenimento del corso d’acqua, due muraglioni, dotati di gradinate e piazzole per consentire operazioni di carico e scarico per i natanti in sosta.

Adria costituiva infatti una sorta di emporio. Vi giungevano merci provenienti dalle coste venete, ma anche da quelle dell’Istria e della Dalmazia, trasportate da barconi di legno adatti alla navigazione fluviale e sotto costa. Si trattava di materiali come legname, carbone, ferramenta, ortaggi, mattoni e tegole da costruzione, che venivano scaricati manualmente dai facchini organizzati in “carovane”, e depositati su carri, per ulteriori spostamenti, o accatastati nei magazzini prossimi al canale. Successivamente i natanti venivano ricaricati con altri prodotti (riso, cereali, zucchero) secondo il saggio principio economico di non compiere viaggi a vuoto.

Quelle operazioni impegnavano lungo la riviera per tutta la settimana, oltre i facchini, una schiera di persone: grossisti, mediatori, carrettieri, piccoli commercianti e povera gente, che andava a elemosinare i prodotti alimentari danneggiati durante il trasporto.

Le trattative di compravendita si svolgevano, di solito, all’aperto, ma la conclusione di un affare era sempre segnata da una capatina nelle tante osterie disposte lungo la riviera.

Vi era però un giorno, verso la fine dell’estate, nel quale il movimento dei barconi veniva sospeso e il bacino destinato ad una particolare manifestazione. Era come se tutto il quartiere si spogliasse degli abiti da lavoro, per indossare quelli della festa. In poche ore, due o tre barche, affiancate l’una all’altra, venivano collegate da una piattaforma. Si provvedeva ad addobbarle con tralicci che sorreggevano cordoni di lampadine colorate e ghirlande di fiori di carta. Sui balconi delle case, lungo il canale, venivano esposti drappi e lampioncini alla veneziana, mentre le famiglie residenti preparavano dolci e bevande per gli amici che avrebbero ospitato nella serata.

Verso il tramonto i ponti, la riviera, la piazzetta del Teatro Comunale cominciavano ad affollarsi. Gli ambulanti cercavano di sistemarsi nei punti strategici. V’era il venditore di frutta secca caramellata, quello di gazzose e di bibite ghiacciate, la “gondola” del gelataio, i banchetti per l’acquisto dei biglietti della lotteria, perfino qualcuno che noleggiava sedie e sgabelli a chi volesse godersi lo spettacolo con maggior comodità.

Con i miei genitori mi recavo in casa di parenti che ci mettevano a disposizione un balcone al primo piano. Mentre ci si avvicinava all’uscio, facendoci largo nella folla, non potevano sfuggirci gli sguardi di invidia nei confronti dei “siòri” che sembravano godere di privilegi anche in quell’occasione.

Di solito l’apertura dello spettacolo era affidata alla banda che lanciava nell’aria le note incalzanti di una marcia tra le acclamazioni e gli evviva degli spettatori. Seguiva l’esibizione di un complesso di strumenti a plettro, impegnato nell’esecuzione di motivi napoletani e di brani da operette.

Accolta da un applauso scrosciante, si affacciava finalmente sul palco la Corale Adriese, un’istituzione cittadina che aveva al suo attivo successi anche internazionali. Dopo essersi impegnata nell’interpretazione del poemetto “Marfisa”, del ferrarese Domenico Tumiati, musicato con grande raffinatezza da Vittore Veneziani, concludeva con arie popolari tra ripetute richieste di bis.

A quel punto, quasi regolarmente, accadeva che uno spettatore precipitasse dalle gradinate nel canale. Si levavano le urla spaventate delle donne mentre gli spettatori più smaliziati ridevano, ritenendo che si trattasse di una sceneggiata programmata dagli organizzatori per vivacizzare il più possibile la serata.

Uno squillo di tromba preannunciava l’estrazione del numero vincente della lotteria e, subito dopo, venivano lanciati i fuochi d’artificio che inondavano di bagliori colorati lo specchio d’acqua, le facciate delle case, la riviera.

Già nell’anteguerra incominciava a manifestarsi una crisi nell’attività fluviale dovuta all’evoluzione dei mercati, ma ancor più all’incremento subito dai trasporti stradali. Per giunta, negli ultimi giorni del conflitto, i militari tedeschi, in ritirata, avevano distrutto il ponte girevole di Sant’Andrea e l’amministrazione locale, anziché ripristinarlo con le sue funzioni, lo aveva sostituito con un manufatto fisso in cemento armato, sgradevole anche esteticamente, che intercluse in modo definitivo l’accesso al bacino da parte dei natanti. Era l’ammissione di una sconfitta e la cancellazione di una millenaria vocazione del territorio adriese.

Restava la nostalgia per la galleggiante e, sul finire degli anni cinquanta, fu deciso di riprendere la tradizione. Ma poiché le grosse barche non potevano accedere al canale, vennero portate, per via terra, due chiatte. Con estrema cura si lavorò per giorni riuscendo a ripristinare il tradizionale allestimento. La partecipazione della gente fu totale. Alla soddisfazione degli anziani, che si apprestavano a rivivere un’emozione della giovinezza, si affiancava la curiosità dei più giovani, che della “galleggiante” avevano solo sentito parlare in famiglia con nostalgia.

Con gli altri complessi tornò sulla scena la grande Corale, rivitalizzata da Gino Casellati e con essa si esibì, da solista, un giovane tenore locale, dalla piccola statura ma dalla stupenda voce: Florindo Andreolli. Fu una serata memorabile. Eppure, quando gli ultimi bagliori dei fuochi artificiali si spensero sull’acqua, uno strano silenzio accompagnò la folla che si allontanava quasi si avvertisse che non si era trattato di un ritorno, ma di un definitivo commiato.

Ancor oggi, cinquant’anni dopo, nelle afose serate d’estate, non appena il sole si nasconde dietro le case, gruppetti di anziani sostano sul ponte ad attendere un po’ di sollievo dalla brezza leggera che spira dal mare. Ma nessuno di loro volge lo sguardo verso l’acqua grigia e stagnante, quasi temesse il risvegliarsi del rimpianto per anni lontani, quando essa scorreva, limpida e viva, protagonista in un mondo cancellato per sempre.

da “Una corsa nel tempo” Perosini Editore, Zevio (VR), 2004



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