fbevnts Ricordi dolcissimi di Gianfranco Scarpari
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Le cucine delle nonne

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Le cucine delle nonne

Alla trattoria “alla Rosa”

 

Essendo nato da genitori non più giovani, non ho fatto in tempo a conoscere i miei nonni maschi, perché anche allora gli uomini, di solito, avevano la brutta abitudine di andare all’altro mondo prima delle donne. Solo che le vedove, dopo la scomparsa del marito, non si mettevano, come succede oggi, a girare il mondo vestite di colori sgargianti. Indossavano abiti rigorosamente neri e si barricavano in casa, salvo recarsi la domenica in chiesa con il volto coperto da un velo.

Le mie due nonne, assai vicine per età, erano invece diverse per estrazione sociale e per carattere. La nonna materna proveniva da una famiglia di agricoltori ed era stata allevata in un ambiente dove si parlava spesso del tempo, dell’andamento dei raccolti, di bestiame, dei prezzi dei prodotti della terra. S’interessava ad un piccolo orto che fiancheggiava la sua vecchia casa e la mattina, per prima cosa, apriva le imposte ed osservava il cielo per prevedere il tempo della giornata.

L’altra nonna, molto religiosa, si rivolgeva lei pure al cielo, ma con ben altri pensieri. Aveva trascorso parte dell’infanzia e della giovinezza in collegio, dove aveva imparato ciò che serviva alle ragazze di quel tempo per disimpegnarsi nel disegno, nella musica, nel ricamo.

(…)

Qualcuno ha scritto che le persone si caratterizzano in funzione dei cibi che prediligono e così anche le cucine delle due nonne erano completamente differenti. Ero invitato, alternativamente le domeniche, quelle pari da una, le dispari dall’altra a colazione da loro e finivo talvolta per chiamarle la “nonna pari” e la “nonna dispari”. Quando dovevo recarmi dalla nonna materna, quella “pari”, era d’obbligo una sosta dall’Altabella, una vecchietta per la verità né alta né bella, che gestiva una tabaccheria sulla riviera del canale. Compravo due porzioni di tabacco da fiuto di qualità diverse, che l’Altabella pesava e io pagavo con una moneta datami da mia madre. Arrivato, consegnavo i cartocci alla nonna, che provvedeva a mescolarne i contenuti e a versarli nella tabacchiera di tartaruga il cui coperchio lasciava intravedere, in trasparenza, l’immagine di Santa Teresa. Ma quale relazione esistesse tra la santa e il tabacco non l’ho mai saputo. Immancabilmente, la nonna ricambiava la mia gentilezza offrendomi venti centesimi con i quali mi recavo dalla Ghingola, per comprarmi i “ciucci”, artigianali antenati degli attuali lecca-lecca. Quello della Ghingola era un negozietto di una ventina di metri quadrati, nel quale le donne del quartiere si rifornivano di generi alimentari di prima necessità, esclusi quindi la carne e il pesce che, per ragioni economiche, rientravano raramente nella dieta delle loro famiglie.

Ritornavo con il mio cartoccino di “ciucci” che avrei consumato alla fine del pranzo, dal momento che dolci non ne venivano quasi mai serviti, a meno che non si trattasse della “pinza onta con le grasèpole”, a base di carne di maiale, raddolcita da qualche chicco d’uvetta. Solo nelle grandi ricorrenze, in quella casa, si facevano concessioni al mio stato di bambino nella scelta dei piatti. Si seguivano principi quasi spartani, condivisi del resto da mia madre, secondo i quali ero io che dovevo adeguarmi alle abitudini delle famiglie che mi ospitavano, anche a costo di qualche sacrificio nelle preferenze. Invece, a parte la carenza di dolci, quell’alimentazione piuttosto grassa e piccante, che si preannunziava con i forti odori che si spandevano intorno, fino ad invadere il cortile, non mi dispiaceva. Spaghetti con le acciughe, tagliatelle con ragù di maiale, cotechini con la polenta bianca, fegato con la “rete”, brasati e, d’inverno, lepri, anitre di valle (“sarsegne”, “ciossi”, “masorini”, ma anche folaghe e beccaccini) e, come pesce, spesso, grosse anguille arrostite, il tutto affiancato da salse ed intingoli appetitosi. Si arrivava, almeno una volta l’anno, ad affrontare cumuli di ossa di maiale con verze “sofegà” o la torta scura confezionata col sangue di suino.

(…)

Le domeniche dispari, quando mi recavo a pranzo dalla nonna paterna, mia madre mi faceva indossare un vestito buono, non tanto per la padrona di casa, che mi vedeva appena dal momento che soffriva di cateratte, quanto per le quattro cugine più grandi di me, che vivevano nella stessa casa, ritenute molto eleganti.

Mentre dalla nonna “pari” molti piatti venivano cotti e allestiti sotto una tettoia addossata alla casa, quest’altra cucina sembrava un laboratorio, organizzato secondo un ordine rigoroso e tutto quanto vi si svolgeva appariva programmato con scrupolo. Vi regnava la cuoca, Maddalena, assistita da un’aiutante piuttosto impacciata e miope, ma la cosa più strana era la difficoltà di comprendere in anticipo, osservando l’animazione diffusa nel locale, quali piatti sarebbero usciti dietro quelle manipolazioni. La nonna teneva moltissimo a giocare sull’elemento sorpresa. Custodiva un grosso libro di ricette, scritte a mano, con quella scrittura appuntita, tipica delle vecchie generazioni. Gli ordini per la preparazione dei cibi, li aveva già impartiti a Maddalena fin dalla sera prima avendo soprattutto l’obiettivo di accontentare me, l’unico piccolo ospite della domenica. La sua provenienza da Piove di Sacco la portava a seguire la tradizione gastronomica veneta o, meglio ancora, padovana ma, pur essendo vedova da tanti anni, riesumava ancora e spesso alcuni menù tipici della cucina trentino-tirolese, che aveva appreso dalla suocera durante lunghi soggiorni nella casa di montagna. Poteva così accadere che, tra i primi piatti, ai “risi e bisi”, al riso con fegatini o con patate, si alternasse la minestra d’orzo o il brodo con canederli, che tra i secondi, al baccalà mantecato o alla vicentina si sostituisse ogni tanto quello, per me stranissimo, coi pinoli e l’uvetta, o che, al posto delle polpettine fritte, ci trovassimo di fronte un tortino di pasta frolla dolce con ripieno di carne cotta macinata finissima e impastata con besciamella. Infine che, tra i dolci si alternassero i gialletti e la torta di patate americane allo strudel e allo zelten.

Certe volte mi invitava a colazione con un’ora di anticipo. Ciò accadeva quando aveva in mente di farmi partecipare, sotto la sua sorveglianza e seguendo i suoi ordini, a qualche operazione in cucina. Mi incaricava, ad esempio, di sbucciare le cipolle, deporle in una teglia imburrata, inserire in ciascuna un chiodo di garofano, ricoprirle di zucchero dopo averle salate e spruzzate di aceto. Alla fine si infilava il tutto nel forno. Le cipolle caramellate si accompagnavano ai più diversi secondi piatti. Oppure mi faceva mescolare la pastella per poi versarla, un cucchiaio alla volta, nelle piatte mascelle di una pinza infuocata, che Maddalena chiudeva ed esponeva alla viva fiamma nel camino. Si estraevano i grandi dolcissimi cialdoni che sarebbero stati serviti, al termine del pranzo, accompagnati dalla panna montata.

Qualche volta, in primavera, mi mandava dietro la casa a raccogliere grappoli di fiori di glicine. Dopo averli lavati ed asciugati su un tovagliolo, venivano passati nella farina, fritti e zuccherati.

(…)

ln quegli anni non si misurava ancora il colesterolo e quando s’incontrava una persona, che non si vedeva da qualche tempo, si poteva azzardare il complimento:

“Come sta bene, la trovo ingrassata!” senza ricevere in cambio una sberla.

Allorché torno col pensiero a quei giorni lontani, mi rendo conto di quanto diversi siano i bambini di oggi. Addirittura non conoscono molti dei piatti che ho elencato e quando, in rare occasioni, se li trovano dinanzi, li affrontano con diffidenza e aria di compatimento, solo per fare un piacere ai genitori o ai nonni. Al pan biscotto preferiscono le merendine, alle sardine in “saòr” i bastoncini di pesce fritto consigliati da un capitano di marina televisivo, a una marmellata casalinga la Nutella. Essi sanno spiegare scientificamente lo scopo dell’operazione praticata sui capponi, in virtù delle informazioni sul sesso ricevute a scuola, ma non hanno mai visto né mangiato cappone.

Crescendo frequenteranno i fast-food, le pizzerie e le paninoteche, berranno birra ad alta gradazione alcolica e quando, divenuti adulti, si accorgeranno di aumentare di qualche etto adotteranno diete rigorose, a base di soia e di mozzarella integrate magari da prodotti dimagranti.

Finiranno così per arrivare in perfetta forma alle soglie della vecchiaia dopo aver mangiato male per tutta la vita.

da “Una corsa nel tempo” Perosini Editore, Zevio (VR), 2004




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