Scarpari e Cibotto: due scrittori a confronto
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Toni Cibotto, poeta estinto

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Toni Cibotto, poeta estinto

E’ inutile chiamarlo al telefono prima delle undici e mezza del mattino: non risponde. A partire da quell’ora è impegnato in un lento risveglio: la voce è cavernosa e i pensieri funesti:

“Ciao Toni, come stai?”

“Male. Non ho dormito tutta la notte”.

Ed elenca una serie di malanni alla quale, per solidarietà, gli rispondo esponendo i miei, inventandone magari qualcuno in più, se non mi sembrano abbastanza.

Un cappuccino e una brioche e, dopo mezz’ora, dimenticati i mali, è al giornale intento a scrivere, con la vecchia portatile, il pezzo sullo spettacolo teatrale al quale ha assistito la sera prima, non importa se rappresentato in una grande città da una nota compagnia, o in un paesino ove un gruppo di volonterosi dilettanti riesumava dall’oblio una commedia in dialetto veneto. Perché, ormai da anni, dedica il suo impegno a rivitalizzare quel teatro che in giorni lontani ebbe, Goldoni a parte, autori come Gallina, Rocca, Palmieri e attori come Benini, Baseggio, i Micheluzzi.

Gian Antonio Cibotto ama definirsi, con una dose di civetteria, “estinto”, ma è onnipresente sulla scena culturale del Veneto, si proclama estraneo alla società attuale, ma risponde generosamente a tutte le chiamate che gli vengono rivolte: non si rifiuta di presentare, nei luoghi più remoti, il romanzo di un autore sconosciuto, legge pazientemente i manoscritti di giovani aspiranti scrittori che si accumulano sulla sua scrivania.

Come riesca, con tutti gli impegni ai quali non sa sottrarsi, a trovare il tempo per pubblicare, puntualmente ogni anno, un nuovo libro, ha dell’incredibile.

Sono passati molti decenni da quando vide la luce “Scano Boa”, forse il suo capolavoro, (del quale pare introvabile la bella versione cinematografica del regista Renato Dall’Ara), ma la sua personalità di scrittore è rimasta immutata, pur essendosi spostato il suo interesse, dalla narrativa, alla rievocazione – a volte velata di malinconia, altre ravvivata da un sottile umorismo – di vicende, personaggi, atmosfere culturali inghiottiti dal tempo e da un colpevole oblio. Non per caso la lettura degli ultimi suoi scritti ci riconduce, per analogia, ad un grande libro dimenticato: “Il mondo di ieri” di Stefan Zweig.

Nel ricordo di Comisso, Cardarelli, Valgimigli, Penna, Valeri e di tanti altri grandi del passato, egli sembra rifugiarsi, quasi vi cercasse la forza per affrontare una realtà nella quale si trova a vivere. Ed allora l’apparente contraddizione della sua personalità, tra partecipazione attiva e apparente distacco, sfuma perché la rievocazione è diretta a sollecitare l’interesse della gente di oggi, con la quale costantemente dialoga, verso un mondo fondato su valori che dovrebbero pur sopravvivere al succedersi delle generazioni.

Nell’ultimo libro, “Il principe stanco”, narra tre periodi della sua vita. Nella prima parte racconta gli anni giovanili trascorsi in Polesine con le persecuzioni subite dal padre antifascista, le peregrinazioni scolastiche, l’approccio verso la letteratura e i primi successi. La seconda è dedicata al lungo periodo vissuto a Roma, agli incontri con personaggi che hanno lasciato tracce profonde nella sua memoria. Infine, nell’ultima, narra il rientro nel Veneto, per inseguire e ricostruire emozioni lontane, quasi fosse una sorta di riconciliazione con il primo amore.

Una nostalgia questa, che si materializza nel ricorrente peregrinare per le contrade venete verso luoghi remoti, su vecchie strade polverose fino a farsi trasportare, dalla vecchia Mini, nei grandi spazi del Delta, che ancora resistono alla speculazione degli uomini.

Dopo il suo ritorno da Roma, ci incontriamo quasi regolarmente. Intorno alla tavola le battute, spesso benevolmente aggressive, non mancano. Costituiscono un divertimento per entrambi. Ma verso la conclusione delle serate affiorano pensieri diversi. Molte volte spunta un ricorrente, ansioso interrogativo che egli si pone: se si possa attendere qualcosa oltre i confini della vita fisica. Il solo fatto di chiederselo tradisce in lui, a parer mio, una apertura segreta alla speranza. Ed allora mi domando se il figlio laico di un genitore cattolico non abbia ereditato qualcosa dal padre.

Da “Una corsa nel tempo” Perosini Editore, Zevio (VR), 2004