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Ultime pedalate

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Ultime pedalate

Ultime pedalate

 

da “IL GAZZETTINO ” 19 Agosto 1983

 

Da bambino mi avevano raccontato che Berta, a forza di premere il piede sul telaio per filare, se l’era ritrovato largo e appiattito. Nonostante la mia ingenuità, non mi riusciva facile accettare l’immagine di quell’arto imprigionato in una pantofola che aveva l’estensione e la sottigliezza di una grande sogliola, come lo raffigurava il Dorè nelle sue illustrazioni.

Alla storia di Berta ho incominciato a credere quando, qualche anno fa, ho incontrato Dante Amaroli, un bolognese ospite della casa di riposo nella mia cittadina.

Fin dall’infanzia aveva trascorso quasi tutto il suo tempo libero a cavallo di una bicicletta da corsa. Il suo corpo piccolo e tozzo, anche quando non si trovava in sella, manteneva l’atteggiamento del corridore: la testa incassata tra le spalle, le braccia rigide e protese in avanti, il mento piantato sul petto che l’induceva a guardare il prossimo come se fissasse la carreggiata stradale. Perfino la piccola testa pelata, di forma leggermente ovoidale, pareva conformata per scopi aerodinamici. Nel vederlo appiedato sembrava incompleto, inconsistente, quasi ridicolo, come la statua di un guerriero strappata da un monumento equestre e come l’immagine di Berta senza telaio.

Per lunghi anni aveva operato come apprezzato ebanista nella ricca e grande Bologna, tra le due guerre, legata alle carismatiche presenze di Collamarini, Casanova, Samoggia e – più tardi – di Melchiorre Bega. E di quell’epoca, della città più vivace d’Italia che sembrava non conoscesse la notte, conservava infiniti ricordi nitidi, documentati, che abbracciavano personaggi celebri ed altri quasi oscuri dell’arte, della politica, dello sport, della cultura. Bastava pronunciare un nome (ed una volta gli feci per caso quello di Leandro Arpinati, uno dei fondatori del fascismo emiliano) che subito dalle sue labbra usciva una serie preziosa e spesso inedita di dati, informazioni, pettegolezzi persino, raccolti durante le sue soste sotto i portici del centro, naturalmente con la bicicletta a fianco.

A quasi ottant’anni le sue mani corte e nodose conservavano nel lavoro un’agilità sorprendente. L’ho visto costruire un raccordo di cornice mancante ad un mobile settecentesco usando una semplice lima, senza prendere una sola misura, senza un attimo di esitazione. È il momento in cui l’artigiano sconfina nell’artista.

Negli ultimi mesi la sua disinvoltura nel muoversi in bicicletta sembrava andasse esaurendosi e una mattina mentre, a cavalcioni del velocipede stava, come ogni giorno, sbriciolando il pane ai colombi sul sagrato, gli avevo fatto una raccomandazione alla prudenza. Mi aveva ascoltato e poi, con una lentezza incredibile, mi aveva sollevato in faccia i suoi tondi occhietti umidi: «Ho vissuto sempre sulla bicicletta – aveva risposto – . Forse i miei vecchi si sono dimenticati di insegnarmi a camminare». E aveva chiuso il discorso con un sorriso dolcissimo, ma irremovibile.

Qualche giorno dopo un’auto l’ha travolto. Ma non voglio pensare alla sua lunga agonia nella camera di rianimazione. Preferisco credere che, ad un certo punto della sua ultima gita, le ruote della bicicletta si siano staccate dall’asfalto e che il vecchio Dante, miracolosamente ringiovanito, si sia messo a pedalare sempre più forte, senza voltarsi indietro, imboccando una ripida salita verso uno squarcio di azzurro fino a diventare un puntino quasi invisibile, altissimo e lontano.




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