fbevnts La Veneta: una linea ferroviaria di cui non si ha più memoria
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Un'avventura che si chiamava Veneta

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Un'avventura che si chiamava Veneta

da “IL GAZZETTINO ” 29 maggio 1979

La stazione ferroviaria dalla quale partiva il treno per Padova e Venezia si trovava a pochi passi da casa mia, ma il mio amico Bruno, che risiedeva in un paese della bassa, doveva percorrere, per raggiungerla, quindici chilometri in bicicletta dopo essersi alzato verso le quattro del mattino. D’inverno arrivava sul piazzale con l’aspetto di un fantasma coperto di brina: gli occhi dilatati luccicavano tra il berretto e la grossa sciarpa: di lana, mentre le mani – nonostante le manopole di coniglio applicate al manubrio – apparivano gonfie, rosse, irrigidite. Portava impregnato nel cappotto l’odore acre del fumo emanato dal grande camino della cucina vicino al quale ogni sera, quando tornava, sua madre gli asciugava il vestiario. Dalla borsa sgangherata, nel momento in cui la staccava dal telaio della bicicletta, usciva un invitante profumo di pane biscotto e di salame all’aglio. La vecchia vaporiera, mentre s’accingeva alla partenza ansava tra sbuffi di fumo e di candido vapore in un precipitare di braci rossastre sul binario. Il convoglio era quasi tutto formato da vetture di terza classe, scarsamente illuminate, con scomodi sedili di legno: soltanto un piccolo reparto era riservato alla prima e sprigionava un’aria intima, come il salottino «buono» di una casa piccolo-borghese, con le tappezzerie rosse e i poggiatesta ricamati. Vi prendevano posto pochi privilegiati: l’avvocato con la pelliccia interna dal collo di astrakan che doveva andare in tribunale o la collegiale di buona famiglia nella divisa blu del Sacrocuore e la valigetta foderata di fustagno. La partenza era lentissima, ma verso l’Adige il treno andava accelerando per accumulare slancio sufficiente a superare la salita, che conduceva al ponte, raggiunto il quale, con il massimo sconquasso di finestrini e portiere, improvvisamente si acquietava per riprendere fiato, dopo aver emesso un rauco fischio di sollievo e di trionfo. D’inverno si riusciva a vedere verso l’esterno soltanto dopo che il calore umano aveva disciolto gli arabeschi di ghiaccio formatisi sui vetri, ma nella buona stagione era un’altra cosa. Noi studenti uscivamo sui belvedere coperti, alle estremità di ogni carrozza a respirare l’aria frizzante della campagna mentre una curva dopo l’altra, la «Veneta» snodava le sue stanche cigolanti giunture tra un’aia e una chiesetta, un vigneto e un filare di salici, faceva volare i cappelli di paglia e sventolare le gonne alle ragazze curve a lavorare sui campi, metteva in fuga branchi di galline padovane, sfiorava minacciosa le verdi siepi di robinie e il casellante, rigido sull’attenti, come una sentinella, con la bandiera attorcigliata in mano. Erano quotidiani quadretti di vita che per noi si formavano alla distanza, prendevano consistenza e poi sparivano lasciando posto ad altri in una galleria continuamente cangiante. E con essi il viaggiatore abituale finiva per stabilire una sorta di confidenza, persino di partecipazione amorevole. Ci si chiedeva perché, quel mattino, la vecchietta a Corezzola avesse ritardato di dare al maiale il suo pasto, tant’è che il muso dell’animale spuntava roseo ed impaziente tra le stecche del recinto, o si constatava che il capostazione di Arzergrande, dal modo in cui portava il berretto, la sera prima doveva aver sostato più del solito nell’osteria del paese. Ma quando la stazione di Piove di Sacco si profilava all’orizzonte, il vecchio treno assumeva un’aria di sussiego e d’importanza: da paesano sembrava farsi strapaesano. A Piove, infatti, le linee si dividevano in due con il treno a vapore (o meglio la «ferrata», come la chiamavano i contadini) che proseguiva verso Venezia per fermarsi nella grande stazione lagunare su un binario relegato fuori dal riparo delle pensiline, ed il tram elettrico, di tre o quattro vetture, che si dirigeva a Padova correndo, quasi sempre, a fianco della strada provinciale. A Piove perciò si percepiva l’aria del trasbordo, quasi come in una stazione di frontiera: un omino, con un cesto di vimini appoggiato su treppiede, vendeva zaléti e paste bianche come il gesso ed una giornalaia grassa comunicava urlando i titoli del Gazzettino – le ultime notizie a un pubblico in gran parte analfabeta - . Noi passavamo da un treno all’altro invidiando, d’inverno, coloro che potevano proseguire restando nell’ambiente che avevamo contribuito a riscaldare e ci univamo a tutta un’altra umanità formata di contadini che ogni giovedì andavano al mercato (non importa se nulla avessero da vendere e nulla da comperare) o di parenti che andavano a visitare un congiunto all’ospedale discorrendo di interventi chirurgici e di eredità. Poi magari a Legnaro – dove il tram sostava così a ridosso della farmacia da bloccarne l’ingresso – o a Brugine, o a Roncaglia un vecchio prete con l’abito scolorito dal sole e dalla pioggia, precedeva un gruppetto di donne in nero guidando per mano il bimbetto, tosato e vestito da fratino, per la guarigione del quale si recavano tutti al Santo a sciogliere un voto. Un mondo eterogeneo, patriarcale, disperato e felice che approdava alla stazione di Santa Sofia, punto di confluenza di tutte le linee secondarie provenienti dai vari centri del contado. Santa Sofia non è più: le ruspe e i picconi l’hanno cancellata. Aveva due cancelli in ferro, all’entrata ed all’uscita, che la sera venivano sbarrati come si chiudono le porte delle case rurali quando fa notte e tutti i membri della famiglia sono rientrati. Sono contento di non aver seguito il suo smantellamento, così posso illudermi che si sia volatilizzata, dissolta nell’aria con i suoi capistazione dal berrettino rosso, carico di righe d’oro, la sala d’aspetto foderata di perline, la fontanella di ghisa che perdeva sempre acqua dal pulsante di bronzo e l’erba che cresceva sui binari, irreale in pieno centro, quasi a stabilire un discreto legame d’amore tra Padova e la sua campagna. Dissolta come la breve vita del mio amico Bruno dopo che egli aveva consumato i giorni più belli sui libri, in bicicletta, nei trenini della veneta.




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