Fratelli di taglia
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- L'estuario del Po
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- Notizia pubblicata il 17 giugno 2024
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- Scritto da Mario Bellettato
Qualche sera fa ho seguito su La7 “Il caso Matteotti”, la registrazione della conferenza che Barbero ha tenuto il 7 maggio scorso al Teatro Sociale di Rovigo. La versione televisiva era arricchita da un prologo filmato, riprese in esterna girate sul delta del Po, a Scano Boa. Un elemento introduttivo che allo spettatore meno attento potrebbe sembrare scollegato dal tema principale, dal delitto di cui si parla: in realtà l’incipit permette di cogliere le ragioni profonde delle battaglie politico-sociali che già dal diciannovesimo secolo la giovane sinistra italiana, e Matteotti in primis, avevano sostenuto. Non voglio sembrare autoreferenziale, ma il fatto che gli ultimi libri di Diego Crivellari pubblicati da Apogeo di REM parlino appunto del delta del Po e di Matteotti, mi è sembrato la conferma indiretta che in questo caso tra storia e territorio esiste un legame intimo, profondo. La trasmissione ha saputo spiegare quale fosse l’humus, in Polesine e a Roma, dal quale si è sviluppato quel crimine orrendo e ha tracciato un ritratto obiettivo delle figure che, a vario titolo e con diverse motivazioni, vi hanno preso parte: Barbero è uno storico rigoroso e brillante e ci ha offerto in modo accattivante e mai noioso una verità storica amara quanto incontestabile. La vicenda è nota, dopo la ricostruzione che ne fa Barbero lo è anche nei dettagli, quelli che ne danno la cifra e ne descrivono la miseria morale entro cui essa si è sviluppata. Se il quadro che ne esce è desolante, il raffronto con la realtà odierna è inquietante. La sottocultura fascista, con la sua smania di potere, con il desiderio di controllo insindacabile, con la sua visione classista della società, seguiva una dottrina che giustificava qualsiasi crimine pur di garantire la sopravvivenza di un sistema che non poteva e non voleva accettare le dinamiche del confronto democratico. Oggi denaro e potere sono la costellazione che guida governo e amministratori locali, accomunati dall’assoluta mancanza di etica e di dignità che li spinge a rifiutare le dimissioni anche quando sono doverose. Riemerge dal passato il culto della personalità, declinato in una gerarchia tragicomica dove a qualsiasi livello c’è comunque un sottoposto da vessare e un superiore cui obbedire ciecamente, è il totem cui il fascista vecchio e nuovo sacrifica cose, animali, uomini e soprattutto ideali. L’importante è negare la parità: le donne sottoposte agli uomini, i semplici cittadini ai politici, la gente comune agli ammanicati, gli immigrati ai “veri italiani”, i poveri ai ricchi. È una visione del mondo miope e retrograda, stupida e ingenerosa, ma è tornata di moda e ci sono un sacco di formichine che passo dopo passo stando erigendo la fortezza cupa e liberticida che ci costringerà a ripetere (lo spero) la presa della Bastiglia. L’autoritarismo è una mala pianta difficile da estirpare dall’animo degli italiani, in questo periodo purtroppo anche da quello di molti europei, è un seme che all’inizio dissimula accuratamente i propri germogli per non farsi riconoscere, è la cultura che ritiene l’ideale una complicazione inutile, un ostacolo alla propria bulimia di consumo, di potere spicciolo e arrogante. È il modello Santanché, scimmiottato con drammatica goffaggine da migliaia di emulatrici in SUV la cui attività più gratificante è dedicarsi al saccheggio mensile delle showroom dell’outlet, è lo stile Vannacci, replicato da guitti di terz’ordine che sognano un riscatto machista alla loro manifesta inconsistenza. Ci sono persone che faticano a comprendere l’importanza di un bene astratto come, ad esempio, la libertà o il rispetto dei diritti altrui. Gli riesce più facile ingurgitare la propaganda cialtrona delle destre, l’apparente soluzione a tutti problemi. In questo momento sappiamo che sono in parecchi.