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I cattivi maestri

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I cattivi maestri
Ricordo bene gli anni ’70: frequentavo l’università e fu proprio allora che ho sentito usare per la prima volta la definizione “cattivi maestri”, nei confronti di un gruppo di intellettuali vicini alla sinistra extraparlementare. In qualche modo avevano teorizzato la lotta armata e quella che veniva definita “violenza di classe” come alternative rivoluzionarie alla società paleocapitalista che governava il nostro paese. L’esempio più illustre è quello di Toni Negri, un intellettuale controverso, ma che in ogni caso per formazione, studi e produzione filosofico-scientifica è stato comunque un gigante. Di lui oggi (colpevolmente) si rammentano le vicende giudiziarie legate a Lotta Continua e Potere Operaio, di cui fu uno dei teorici e fondatori, al processo 7 Aprile, alla sua fuga in Francia grazie alla cosiddetta “dottrina Mitterand” che gli consentì comunque di continuare la sua attività alla Sorbona e presso altri prestigiosissimi atenei transalpini. Fu il più giovane professore ordinario d’Italia, alcuni dei suoi saggi sono ancora oggi punti fermi in tema di filosofia politica. La Democrazia Cristiana, Cossiga in particolare, non gli perdonarono mai le sue posizioni teoriche, senza dubbio ebbe alcune responsabilità morali in relazione alla violenza degli anni di piombo, ma non si può negare che sia stato oggetto di una vera e propria persecuzione giudiziaria da parte del Ministero dell’Interno.

I “cattivi maestri” di oggi non hanno certo la statura intellettuale di Negri: al suo confronto non sono altro che dei nani ignoranti e rancorosi, privi di qualsiasi visione politica e assolutamente incapaci di comprendere la società in cui viviamo e ancor meno in grado di ipotizzarne un qualsiasi sviluppo. Di recente hanno invitato gli italiani a “non votare”, affermando candidamente che non serve, che è meglio andare al mare. Hanno trattato un tema così importante con lo stesso atteggiamento con cui parlano di “sovranità alimentare”, un’altra idiozia partorita dalle loro menti elette, ma che ha certo ben altra portata. L’affermazione “votare non serve a un cavolo” potrebbe rappresentare l’alfa e l’omega del loro spessore culturale.

Molti elettori hanno colto l’occasione per disertare le urne: tanto a che serve? In un delirio di ignoranza qualunquista evidentemente non si rendono conto che il diritto cui abdicano è costato secoli di lotte, migliaia di morti e guerre civili, prima di essere raggiunto. Metà del paese è disposta a buttare nel cesso una conquista di civiltà e democrazia, proprio quello che invece metà del pianeta ci invidia e che senza ombra di dubbio è uno dei motivi per cui milioni di sfortunati vorrebbero venire a vivere da noi. Chi vorrebbe emigrare in Russia, in Cina o in Iran? Lì non si vota.

Pensare che si possa fare a meno di votare è come pensare che i processi non servano, che la giustizia amministrata nei tribunali (con tutti i suoi limiti, le inefficienze e i paradossi) sia inutile, che i pedofili andrebbero giustiziati sommariamente sul posto, che i colpevoli di femminicidio andrebbero linciati all’albero più vicino. Con un considerevole risparmio di tempo e di denaro pubblico.

Ci sono zone del nostro paese dove praticamente non si vota, o meglio il voto è “gestito”, dove la giustizia è rapida (anche se arbitraria) e inappellabile, dove la pena di morte esiste ancora e dove gli immigrati “stanno al posto loro”: sono le aree sotto il controllo della criminalità organizzata.

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