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Per chi suona la campana

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Temo che la banalità del male, quella descritta perfettamente da Hannah Arendt, non debba necessariamente manifestarsi solo nei criminali, in quelli cioè che “il male” lo fanno, ma sia ben presente anche in molte persone che a prima vista vengono considerate normali, e che si ritengono a buon diritto benpensanti.

Mi riferisco a molti tra coloro che hanno guardato con sufficienza le manifestazioni pro-Palestina e hanno criticato più o meno velatamente la missione della
flotilla. La giustificazione più diffusa a questo atteggiamento è che le manifestazioni non servono a nulla, indipendente dalla gravità delle situazioni che denunciano, come se il destino dei singoli e dei popoli fosse immutabile, tracciato nelle stelle come una sorta di oroscopo politico, deciso insindacabilmente dai gruppi di potere che condizionano i governi.

L’eclissi dei valori e degli ideali ci ha privato della capacità di giudicare, di distinguere il bene dal male e di conseguenza di indignarci. Siamo diventati impermeabili all’empatia, alla compassione, assistiamo alla tragedia senza renderci conto che non è una narrazione sul web e in questo modo ci siamo privati della speranza di una catarsi. Non riusciamo a scendere in piazza per dire basta a un genocidio, ma ci mettiamo in fila pazienti per ore se Starbucks apre una nuova location o se Apple presenta il nuovo iPhone. L’intelligenza artificiale cui delegheremo valutazioni e scelte, secondo molti costituirà la panacea che ci solleverà dalle ultime, insopportabili fatiche del pensare in autonomia: il divino algoritmo deciderà per noi, ci guiderà infallibile verso il futuro e la felicità.

Sarà il colpo di grazia.

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